Un tempo si lottizzava con classe. Erano gli anni della Dc e del Pci, delle riserve indiane, di Biagio Agnes e Telekabul. E, ammettiamolo, del maggior pluralismo possibile di un sistema storto. Poi, gradualmente, il potere di Chigi ha dilagato. Arrivano gli anni delle epurazioni, dall’editto bulgaro in poi. Dell’umiliazione della Rai, colonizzata da mezze figure berlusconiane col mandato della mediocrità. Fino ad arrivare, nel 2015, a una riforma complessiva che affida la scelta dell’amministratore delegato – termine da governance globale che cela un controllo politico sempre più ferreo – direttamente alla Presidenza del Consiglio. Da allora, alla luce del sole, l’ad di Viale Mazzini viene periodicamente convocato dal governo. Alla faccia dell’indipendenza dell’informazione pagata dai cittadini. Matteo Renzi, da premier, promise di non spostare a Viale Mazzini “nemmeno una pianta”. Non fu proprio così: la Vigilanza Rai usata spesso come manganello, la par condicio da pretesto contro il dissenso. Poi, qualche anno dopo, con l’introduzione delle direzioni di genere televisivo, cade l’ultimo baluardo al pluralismo delle idee: l’autonomia, nella spartizione, delle direzioni di rete.

Veniamo a oggi. Altro che piante: la Sorella d’Italia, la Rai la vuole proprio dissodare. Il decreto Fuortes è l’atto politico più sfacciato mai compiuto ai fini dell’occupazione dello schermo. Con la complicità di un amministratore delegato che, pur di non restare a piedi nel 2024, cede alle pressioni spasmodiche di Chigi, il governo emana un decreto (necessità e urgenza!) per porre fine al mandato del sovrintendente Lissner al teatro San Carlo.

Così può spostare Fuortes a Napoli. E libera la Rai per gli accoliti. Lissner fa ricorso. Se vince, è il caos. Se perde, arrivano i loro. Casella nera su casella rossa, altro che indiani. L’uomo forte di Giorgia Meloni a Viale Mazzini si chiama Giampaolo Rossi. Non lo conosco. Pare sia uno pratico. Ha scritto sul suo blog frasi del genere: “Putin è l’unica speranza per scongiurare una crisi internazionale senza ritorno”. Considera il presidente russo un argine contro le élite mondialiste che vorrebbero annacquare l’identità dei popoli bianchi. Definisce Soros uno “speculatore globalista” nonché “ebreo”, tale e quale a Shelob di Tolkien, “malefico essere a forma di ragno”, Obama un “afro di Honolulu”, Navalny una spia della Cia. E sé stesso, viva la lucidità, un “complottista”.

Poi, quando Meloni ha cominciato a prendere quota nei sondaggi, si è zittito. Sai mai, si sarà detto. Ecco, Rossi dovrebbe diventare prima direttore generale, poi amministratore delegato della più grande azienda culturale del Paese. Anzi, della Nazione. Nel frattempo, Meloni è diventata pro Zelensky. Ma si sa, questi sono gli inconvenienti di virare stretti sul potere senza avvisare per tempo i colonnelli. Quelli, ancora si commuovono per le cupole del Cremlino e i documentari dell’Istituto Luce.

 

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