Le destre al governo, con emuli anche a sinistra, usano l’antimafia come uno strumento politico cangiante a seconda dei casi. Se i protagonisti della vicenda sono alleati, fedelissimi o amici, usano il guanto di velluto, si muovo con accortezza, e pretende l’impunità travestendola di finto garantismo. Se invece i fatti riguardano gli avversari politici, ecco che il pugno diventa di ferro.

Una doppiezza lampante, ancora una volta, nel caso di Bari e della nomina della commissione di accesso decisa dal ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, per verificare la presenza di infiltrazioni mafiose e, quindi, valutare il possibile scioglimento del comune guidato dal dem Antonio Decaro.

La decisione è arrivata dopo l’indagine che ha portato a oltre 100 arresti e ha coinvolto, da ultimo, una consigliera eletta nel centrodestra poi passata in maggioranza. Nel mirino anche le ingerenze della malavita locale nella gestione dell’azienda di trasporti comunale, finita in gestione giudiziaria.

La cosa curiosa, però, è che i partiti politici che oggi cercando di mettere in difficoltà Decaro (fingendo di volerlo tutelare) a pochi mesi dalle elezioni comunali del prossimo 8 e 9 giugno, sono gli stessi che si stracciavano le vesti per evitare il commissariamento di altri enti locali come Fondi, in provincia di Latina, dove le scorribande criminali non erano un’ipotesi, ma una certezza. E non è l’unico caso.

La legge

Prima, però, è meglio chiarire un passaggio: le condizioni per la nomina di una commissione di accesso nel comune pugliese ci sono, basta leggere l’articolo 143 del Testo unico sugli enti locali. Le anomalie sono legate innanzitutto alla procedura.

«Il prefetto deve prima raccogliere sul territorio gli elementi utili, da autorità giudiziaria o da forze dell’ordine, sulla base di questi elementi valuta se chiedere la delega al ministro attraverso l’invio di un rapporto classificato “riservato”, a quel punto il ministro valuta se delegare il prefetto. Sono procedure che possono durare anche mesi, diciamo che in questo caso le procedure sono state strumentalmente ignorate e velocizzate», spiega un funzionario prefettizio che da anni si occupa di ispezionare i comuni a rischio.

Insomma la decisione della destra, che come spesso capita fa carta straccia di normative e liturgia istituzionale, non è solo insolitamente frettolosa ma evidenzia, in maniera ancora più chiara, la doppiezza di chi invoca il pugno duro e l’azzeramento dell’ente.

Ipotesi improbabile, come dimostrerà la stessa commissione di accesso quando terminerà i lavori, perché non ci sono univoci, concreti e rilevanti elementi (quelli previsti dalla norma). Anzi, nel caso di Bari, è stata la stessa autorità giudiziaria a riconoscere l’attività di contrasto alla criminalità portata avanti dall’amministrazione comunale.

Fondi mai

Il comune di Fondi, in provincia di Latina, era condizionato dalle organizzazioni criminali, in primis la ‘ndrangheta. A scriverlo nero su bianco ci aveva pensato il prefetto Bruno Frattasi, oggi è a capo dell’Agenzia della cybersicurezza, nominato proprio dal governo Meloni.

All’epoca, nel Consiglio dei ministri che aveva deciso e spinto per non sciogliere il comune pontino per mafia, Meloni era ministra della Gioventù. L’allora titolare del Viminale, Roberto Maroni, aveva dovuto addirittura esprimere solidarietà a Frattasi perché continuamente attaccato e offeso dagli esponenti locali di Forza Italia confluiti nel Popolo delle libertà.

«Ho condiviso parola per parola quella relazione e se qualcuno vuole querelare il prefetto di Latina allora dovrà querelare anche il ministro dell’Interno», aveva detto Maroni.

A Fondi c’era di tutto: auto che saltavano in aria, appalti in mano ai clan, favori, concessioni, le mani e i piedi della mala nel mercato ortofrutticolo. Una vera occupazione. Eppure il locale senatore forzista Claudio Fazzone, che a fine febbraio è stato nominato da Antonio Tajani segretario responsabile della conferenza dei segretari regionali e che è stato citato nella relazione del prefetto senza conseguenze penali (lo scioglimento è un atto amministrativo), parlava di complotto politico e andava oltre: «Presenterò atti riservati che mi sono pervenuti in forma anonima che dimostrano l’esistenza di un complotto contro di me».

E annunciava di essere pronto a ricorrere «all’autorità giudiziaria per chiarire come è stata gestita questa situazione». Addirittura aveva ipotizzato di istituire una commissione d’inchiesta per verificare «tutti gli atti e l’iter prodotto dal prefetto di Latina».

Alla fine ha vinto Fazzone, ha vinto Forza Italia, e il comune di Fondi non è stato sciolto nonostante le chiare ed evidenti infiltrazioni mafiose.

Gli amici

Diverso l’esito a Reggio Calabria dove, nel 2012, l’allora ministra dell’Interno, Annamaria Cancellieri, aveva ottenuto l’ok dal Consiglio dei ministri, premier Mario Monti, allo scioglimento del comune per infiltrazioni mafiose.

Era successo di tutto e le destre, anche in quel caso, avevano parlato di errori, strumentalizzazioni e «complotto». Addirittura europeo.

Dalla relazione prefettizia era emerso il condizionamento: appalti pubblici affidati a ditte in odor di mafia; infiltrazioni delle cosche nelle società miste; assessori, consiglieri comunali e funzionari legati da amicizia o vincoli di parentela a boss e pregiudicati; inefficienze, se non gravi irregolarità, nel funzionamento della stragrande maggioranza degli uffici.

In una foto scattata nei giorni scorsi con il ministro Piantedosi, c’erano gli esponenti pugliesi della maggioranza destre e il sottosegretario alla Giustizia, il forzista Francesco Paolo Sisto.

Cosa diceva Sisto dello scioglimento di Reggio Calabria? «Sciogliere un consiglio comunale per contiguità con la criminalità organizzata è scelta che deve essere lontana anni luce dal giudizio di probabilità o da ambiti di opinabilità».

Mentre il senatore Maurizio Gasparri parlava di «speculazione politica» e, prima dell’azzeramento, aveva visitato la città e rassicurato tutti: «Ci auguriamo che si agisca sulla base di fatti reali e, per quanto riguarda Reggio Calabria in particolare, l’esperienza del comune è sotto gli occhi di tutti, i risultati sono vistosi, sono positivi».

Era esattamente il contrario come dimostrato dagli atti e perfino dalle sentenze definitive. L’ex presidente della regione, già sindaco della città, Giuseppe Scopelliti, prima di subire una condanna definitiva per gli ammanchi nei bilanci dell’ente, intravedeva un «complotto europeo».

La presentazione di diverse interrogazioni parlamentari aveva l’obiettivo di denunciare errori e omissioni nella relazione di scioglimento. In realtà tutto è stato poi confermato, anche nei giudizi d’appello in sede amministrativa.

Ma in fondo l’unico obiettivo era aumentare il caos e coprire un dato inoppugnabile: la fallimentare gestione della città di Reggio Calabria. Ora gli stessi partiti, in nome dell’antimafia a corrente alternata, marciano su Bari.

© Riproduzione riservata