La comunità politica europea che si è riunita questo giovedì a Granada si è rapidamente trasformata in una comunità terapeutica. L’Unione europea lancia l’allarme per i tentennamenti americani sull’Ucraina. L’allargamento è più aleatorio che mai. Bilaterali e incontri sembrano più terapie di gruppo per elaborare traumi, ed espedienti dei leader per mettersi in salvo, invece che «prospettive strategiche» come vorrebbe l’agenda della due giorni di Granada. Vale pure e innanzitutto per Giorgia Meloni.

Valzer sul Titanic

«Io credo che si sia dimostrato che non siamo affatto isolati», ha detto questo giovedì mattina la premier a petto gonfio davanti ai cronisti. E siccome «siamo tutt’altro che isolati» – excusatio non petita – poche ore dopo Meloni si è fatta il suo gruppetto di lavoro a dispetto dell’agenda della presidenza spagnola.

L’urgenza della propaganda meloniana è questa: i migranti. E allora ecco la premier che cerca conforto con Rishi Sunak, la destra britannica che si accanisce contro i rifugiati per gonfiar consensi, Edi Rama, l’«amico» albanese già visto anche in vacanza, e Mark Rutte, il dimissionario premier olandese che ha accompagnato la premier italiana nella sventurata impresa del memorandum tunisino.

Entro il tardo pomeriggio, quando già Granada si è rivelata un flop, e la conferenza stampa di fine vertice è stata annullata, Meloni è riuscita a intruppare pure Ursula von der Leyen, la presidente della Commissione in cerca di un secondo mandato, ed Emmanuel Macron, padre di questo figliol prodigo che si chiama «comunità politica europea».

Un tentativo affannato di danzare in compagnia, quello di Meloni, che può apparire come un valzer sul Titanic, vista l’eco delle stroncature. «Una manovra irresponsabile», scrive di lei l’Economist. «Probabile che Meloni aspetti che mercati nervosi le forzino la mano ma un confronto con la realtà prima o poi arriverà». «Meloni-drama!»: c’è un iceberg in vista, si chiama bilancio, e ci si scontrano anche i più fedeli credenti del «pragmatismo» predicato da Meloni.

Da Granada si vede bene la voragine che separa la propaganda meloniana e i fatti. La premier infatti ha iniziato il vertice cavalcando il dossier migranti, e attribuendosi vittorie. «Sono soddisfatta di un testo che va molto più incontro alle esigenze italiane», ha detto alludendo alla sintesi trovata con la Germania sul patto migrazioni e asilo.

Ma la gran battaglia vinta qual è? L’esclusione degli aiuti umanitari tra le «strumentalizzazioni» di migranti viene declassata da articolo a considerando. Cosa resti di tutto ciò agli italiani non è chiaro, mentre Berlino continua ad avere in mano la riforma del patto di stabilità e quindi i cordoni della nostra spesa pubblica.

Sui numeri, e sui fatti, Meloni – che pure a Granada si è autodescritta come «una pioniera» e che si presenta come «pragmatica» – è stata sbugiardata dall’Economist. «La spesa italiana è un problema per la crescita lenta, quest’anno sotto l’un per cento, e il suo grave fardello del debito: sarà ingestibile se il deficit è eccessivo o se i tassi di interesse sono troppo alti, e oggi l’Italia corre entrambi i rischi». L’Italia rischia di esser messa in riga dai mercati e dalla Bce – preconizza l’Economist – ma la premier aspetterà che la situazione si estremizzi prima di intervenire: «Meloni-drama».

La comunità terapeutica

Per elaborare le sconfitte, Meloni confeziona altri capitoli della sua campagna elettorale permanente in tema migranti. Anche questo venerdì, al Consiglio europeo informale, e incontrando Olaf Scholz, punterà su questo. La premier ha inoltre stretto la mano e confermato il supporto a Volodymyr Zelensky.

Ma intanto Granada impone all’Unione europea di confrontarsi con una realtà tosta. Per quel che riguarda il dossier ucraino, le fondamenta del supporto occidentale a Kiev hanno traballato anzitutto negli Stati Uniti. E ora le scosse di assestamento arrivano al vertice. Il grande non detto, dopo le tensioni sul bilancio Usa e soprattutto in vista delle presidenziali 2024, è che Washington per prima possa disinnamorarsi della causa ucraina, e che – sulla scia di altre esperienze come quella afghana – all’Europa restino i cocci. «Non possiamo, noi da soli, rimpiazzare gli Stati Uniti», è il messaggio che ha lanciato da Granada, e non a caso, l’alto rappresentante Ue Josep Borrell: lascia ben intendere che aria tiri. Nello stesso vertice, Zelensky ammoniva i leader europei – «la Russia attaccherà altri se l’Ucraina perde!» – e stringeva freneticamente mani e accordi: non solo Meloni, anche il premier spagnolo, il presidente francese.

Tre anni fa Macron aveva dato la Nato per morta. Ora è la sua creatura, la «comunità politica europea», a essere accusata di «morte cerebrale». Una conferenza stampa annullata non è certo un annuncio funebre, ma è un buon indizio che il paziente non sia poi così in salute.

La «comunità» era stata la exit strategy macroniana, quando l’aggressione russa aveva convinto i leader europei a coinvolgere altri paesi per rafforzare l’architettura di sicurezza; ma al contempo l’ingresso di Kiev e di altri paesi come membri Ue sembrava tutt’altro che immediato. L’operazione si sta rivelando per quel che è: un escamotage. C’è chi lo sabota – come il presidente turco, che non si presenta – e chi lo sfrutta per rafforzare rapporti bilaterali – o la propria immagine – come Meloni. Ma l’impulso per un nuovo design europeo, già flebile, si sta spegnendo ancor più con il 2024 alle porte.

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