A mezzanotte, quando il presidente del Consiglio europeo Charles Michel si presta ai microfoni dei cronisti per riferire in breve gli esiti del summit informale sulle nomine Ue, è ormai chiaro che i capi di stato e di governo hanno deciso di congedarsi senza una stretta di mano pubblica sui futuri vertici. Niente accordo politico da annunciare. «Lo scopo di oggi non era di siglare una decisione»: dice bene Michel, visto che le formalità sono da riservarsi ai vertici ufficiali.

Il prossimo Consiglio europeo, quello del 27 e 28 giugno, dovrebbe essere quello decisivo: «Ritengo sia un nostro dovere chiudere un accordo entro fine mese», dice Michel. Perché aspettare? Per «ascoltare e coinvolgere tutti: stasera abbiamo avuto una buona conversazione preparatoria», si è discusso «non solo di nomi ma di agenda», e con l’idea di «coinvolgere il più possibile tutti i leader nelle decisioni», per «proteggere l’unità». I riferimenti di Michel alla necessità di equilibrio politico da parte del Consiglio evocano anche l’ultima mossa dei Popolari europei per spingere a proprio favore le trattative: il Ppe ha avanzato l’idea che anche la guida del Consiglio venga alternata, come già succede per l’Europarlamento per accordi politici ed elezioni di metà mandato; un modo per destabilizzare il piano di darne la guida ai socialisti.

I nomi e le dinamiche

«Ne usciamo con una decisione. Not the final one, non quella definitiva, ma sì», per dirla come il capo negoziatore dei Popolari europei – il premier polacco Donald Tusk – nel pomeriggio, prima che inizi il summit informale (la cena tra i leader) per discutere il pacchetto di nomine Ue. Sul tavolo della cena di questo lunedì sono arrivati anzitutto i nomi di Ursula von der Leyen per un altro mandato alla presidenza di Commissione, dell’ex premier portoghese socialista António Costa per la guida del Consiglio europeo, della liberale premier estone Kaja Kallas come Alto rappresentante Ue, oltre ad altri due anni e mezzo per Roberta Metsola alla guida dell’Europarlamento.

E quindi un altro mandato per von der Leyen? Le apparenze fino a un certo punto paiono cospirare a favore, ma non è escluso che la fretta nel chiudere le nomine si riveli come un ballo prima che il Titanic affondi. La presidente in cerca di riconferma non ha da affrontare tanto e solo i movimenti tattici di chi, come Giorgia Meloni, mira a spuntare le condizioni migliori – «una vicepresidenza forte!», suggerisce il vicepremier Antonio Tajani – ma anche la sua stessa famiglia politica: già più volte il leader del Ppe Manfred Weber l’ha tenuta in ostaggio per portarla più a destra, e in Europarlamento la riconferma si vota nel segreto dell’urna. I Popolari sono davvero pronti alle barricate sul nome di von der Leyen? La risposta è «all’inizio sì», dicono a Domani fonti riservate del Ppe. C’è pure il fatto che quando gli europarlamentari dovranno esprimersi sulla guida della Commissione – cioè non prima di metà luglio – Marine Le Pen avrà intanto ottenuto con ogni probabilità la maggioranza relativa nel parlamento francese.

Sarà anche per questo che in molti arrivano alla cena con il piede premuto sull’acceleratore: dietro la restaurazione dell’ordine – vecchi nomi e vecchia maggioranza a tre con popolari, socialisti e liberali – c’è un Ppe che continua ad ammiccare alle destre estreme e che spera così di determinare (più a destra) l’agenda. È esemplare il caso di von der Leyen che rinvia l’uscita del report che certifica gli attacchi di Meloni ai media.

L’accelerazione

«Si faccia in fretta», ha detto il cancelliere tedesco Olaf Scholz arrivando alla cena tra i leader europei. Assieme al premier spagnolo, Scholz ha il compito di negoziare per i socialisti, e lo fa da una posizione più debole dopo che il voto del 9 giugno ha segnato la débâcle del suo partito. I socialisti in generale – e anche il cancelliere in particolare – hanno ribadito prima e dopo il voto che non avrebbero supportato una maggioranza nella quale entrasse Meloni.

«C’è maggioranza coi partiti centristi, cioè socialisti, popolari e liberali, e mi pare che ciò basti per organizzare il nuovo quadro», ha convenuto Tusk questo lunedì: «Al momento il supporto di Meloni non è neppure necessario».

I socialisti corrono per sigillare la maggioranza a tre. I liberali, con il campo macroniano che in Francia è ridotto a un campetto e con le elezioni francesi alle porte, possono fare la voce grossa solo per spuntare qualche condizione, ma hanno tutto l’interesse a sigillare le nomine prima che gli equilibri cambino a proprio svantaggio.

E i popolari? Usciti rafforzati – anche nei seggi – dal voto del 9 giugno, rincorrono inizialmente lo stesso moto acceleratorio, come da strategia weberiana: la prima fase prevede di assicurare il sostegno del Consiglio sui propri nomi. Già all’uscita degli exit poll, il leader del Ppe tirava la giacca a Scholz e Macron. E siccome sul no alla destra estrema – pure meloniana – i socialisti e i liberali in Ue hanno messo la faccia, von der Leyen ha detto che sarebbe partita dalla solita piattaforma a tre.

Cosa può incrinarsi

Gli equilibri devono reggere almeno fino al Consiglio europeo del 27 e 28 giugno – che è più di una cena informale – nel quale i nomi possono essere formalizzati, per poi passare al vaglio dell’Europarlamento. Non a caso questo lunedì Tusk, arrivato all’hotel Stanhope per l’incontro pre vertice tra Popolari, confabulava con Metsola: sarà l’aula il test più difficile per una presidente che non ha avuto un sostegno pieno neppure dai suoi al congresso Ppe di Bucarest.

Si potrebbe agilmente rafforzare la maggioranza ampliando ai Verdi, ma per Weber – che sulla lotta al Green deal ha esercitato la cooperazione con le destre estreme – l’ipotesi è indigesta ben più che lavorare con Meloni. Questo lunedì la premier è apparsa ai margini delle decisioni – ha incontrato un ex premier in declino, il polacco Mateusz Morawiecki, e un premier ai margini, il despota Viktor Orbán – ma farà valere col Ppe la propria capacità di manovra col resto delle destre estreme, oltre che la possibilità di disarticolarle, come ha fatto nel 2021. Per ora punta a un portafoglio interessante in Commissione.

L’illusione della rapidità – così come l’idea che la maggioranza resti quella, immacolata, a tre – regge solo se si restringe lo sguardo a chi supporta le nomine. «La vera maggioranza emerge col tempo», come ha detto von der Leyen prima del voto: i Popolari giocano a fare da perno optando per il supporto delle destre estreme quando fa comodo, come si è intravisto già nella scorsa legislatura. Weber elogia «il buon governo» di Meloni nonostante le allerte sugli attacchi a media e stato di diritto, negli stessi giorni in cui il caso dei saluti fascisti e dell’inchiesta sulla giovanile meloniana diventa noto in Ue a ogni livello: questo lunedì pure il portavoce della Commissione ha dovuto «stigmatizzare la simbologia fascista».

La versione di Meloni moderata, sulla quale la cooperazione col Ppe si fonda, diventa sempre più difficile da reggere, come dimostra il fatto che von der Leyen abbia preferito rinviare la pubblicazione del rapporto annuale sullo stato di diritto, nel quale gli attacchi di Meloni alla libertà dei media finiscono certificati. Persino chi sta negoziando per il bis di von der Leyen – cioè Tusk, che si è sempre erto a difensore della rule of law – non ha potuto non dire che «ho a cuore lo stato di diritto non solo nel mio, ma in tutti i paesi Ue», interrogato da Domani sugli attacchi di Meloni a media e rule of law.

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