«Bruxelles ci stupra!», dice Viktor Orbán all’unisono con Mateusz Morawiecki. «Io li comprendo», fa sapere Giorgia Meloni. Così – a colpi di urla, propaganda e boicottaggi vari – le destre continuano a spintonare l’Unione europea e quel poco che sopravvive di un orizzonte di integrazione politica.

Per i soldi dell’Ue, e per i voti dei propri elettori, il premier polacco, che con Meloni condivide la famiglia politica, e l’autocrate ungherese, per il quale la premier si gioca la faccia, hanno fatto saltare la dichiarazione congiunta di Granada: sul capitolo dei migranti sopravvive solo un documento della presidenza. E resta solo l’involucro vuoto della retorica: il tema migratorio è ridotto a difesa della frontiera e «lotta alla criminalità organizzata», come lo presentano all’unisono la presidente della Commissione europea e la premier italiana.

Calci dagli alleati

Il Consiglio europeo informale si era riunito per discutere di strategie di lungo periodo e di migranti; ne escono divisi i leader, e ne esce col fiato corto l’Unione europea. «Sui migranti vale l’accordo già raggiunto pochi giorni fa a Bruxelles – ha precisato la presidenza spagnola – anche se la premier Meloni ci ha chiesto di parlarne anche a Granada». Una campagna permanente meloniana, che finisce per far deflagrare le contraddizioni interne alla destra europea stessa.

Bruxelles – ha dichiarato questo venerdì Viktor Orbán – «ha violentato legalmente Polonia e Ungheria portando avanti in modo forzato il patto sulle migrazioni». È lo stesso patto che il governo Meloni vanta di aver sbloccato – «un successo italiano» – dopo averlo tenuto in ostaggio. La crociata delle destre italiane contro le ong e contro Berlino si è risolta già alla vigilia di Granada con un declassamento di un paragrafo sugli aiuti umanitari, e questo venerdì Meloni ha potuto esibire ai fotografi la rappacificazione di facciata con Olaf Scholz.

Sia chiaro, la riforma in questione non richiede l’unanimità, e né Varsavia né Budapest fermeranno il patto sulle migrazioni, a meno che gli altri governi glielo consentano. Tecnicamente su ciò è corretta l’affermazione di questo venerdì pomeriggio della premier: «La posizione di Polonia e Ungheria non pregiudica il nostro lavoro». È in altre parole ciò che ha detto anche il cancelliere tedesco: «Il patto sulle migrazioni pone le basi per regole vincolanti che non possono essere bloccate da paesi isolati».

Ma è un dato di fatto che sul piano politico le rimostranze plateali di Morawiecki e Orbán appaiano comunque come uno schiaffo all’alleata, se si pensa che Meloni fino a pochi secondi prima aveva presentato il patto come vantaggioso per l’Italia.

Il doppio ricatto

La premier addolcisce la pillola ai cronisti: dice che le rimostranze polacco-ungheresi sono comprensibili, che sono il retaggio di «una vecchia percezione». E che si tratta di vecchie diatribe sulla redistribuzione – ovvero sulla solidarietà – mentre ora per lei il punto è difendere i confini esterni.

Ma è impossibile ignorare che a metà settembre, dunque neanche un mese fa, Meloni fosse fianco a fianco con Orbán – colui che accusa l’Ue di «stupro legale» – al summit demografico di Budapest, e inoltre pure in un bilaterale, dove i due hanno discusso i rapporti coi conservatori dopo il voto di giugno 2024. Quel giorno l’autocrate filorusso si è ringalluzzito: «Avanti ragazza!», ha twittato; e ha pregustato un sostegno in più per sbloccare i fondi Ue congelati.

Mentre la destra polacca del Pis usa la retorica anti migranti in vista delle elezioni di metà ottobre, entrambi i governi – sia polacco sia ungherese – strepitano sul patto migrazioni e fanno saltare la dichiarazione congiunta per un obiettivo comune: sbloccare i soldi europei. Neppure la guerra in Ucraina ha infranto il patto di mutuo sostegno tra le destre di Polonia e Ungheria che da sempre si spalleggiano sulle violazioni dello stato di diritto.

In più, Ursula von der Leyen – eletta nel 2019 coi voti del Pis e di Fidesz – è disposta a sacrificare la rule of law perché è proiettata sul suo secondo mandato. Ecco perché ha omesso la questione nel suo discorso sullo stato dell’Unione; ecco perché circola l’indiscrezione che i fondi Ue all’Ungheria saranno scongelati; ed ecco perché Polonia e Ungheria si permettono certi toni.

La finta pace

La versione di Giorgia – e cioè che le grane piantate dai due governi «non pregiudicano il lavoro che stiamo facendo» – è falsa. L’Ungheria infatti non teme di usare anche i dossier cari a Meloni come strumento di ricatto. Il firmatario del memorandum con la Tunisia, Olivér Várhelyi, il commissario Ue all’allargamento che in tempi non lontani ha dialogato in modo opaco coi separatisti serbi, è andato a dire a Saied che «è libero di ridarci i soldi»; ciò mentre Meloni si spendeva invece per l’intesa.

La premier, che si prepara a un viaggio in Germania a novembre, questo venerdì ha esibito intanto una riappacificazione di facciata con Scholz, oltre che la comunione d’orizzonte con il conservatore Rishi Sunak.

Entrambi i capi di governo sono in ansia elettorale. In Germania ci sono le elezioni locali nel weekend, con un’estrema destra rampante. «I fondi alle ong li ha decisi il parlamento, non io» ha precisato Scholz. Nel Regno Unito brexitaro poi, coi laburisti alle calcagna nei sondaggi, la retorica anti migranti è uno dei pochi strumenti utili ai conservatori per gonfiar consensi.

L’Italia a sua volta ha una destra di governo che se la vede con stroncature internazionali e pensa alle europee. Ma tre ansie messe insieme non fanno una calma. Soprattutto quando i propri alleati sono i primi a tirar calci.

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