Mentre la Nato si consolida e i giri di valzer europei con Russia e Cina finiscono in archivio, la dialettica fra Europa e USA continua la sua strada. Ci fu l’epico scontro sui diesel furbetti dei tedeschi, seguito dal movimentismo doganale dell’epoca trumpiana. Ci sarà da spartirsi il crescente mercato delle armi, con quel 2 per cento del Pil che piace a molti, nonché da litigare sul prezzo del petrolio americano dopo che quello russo sia finito fuori scena.

Si litigherà di sicuro sulla disciplina delle Big Tech dove la situazione di fatto è la più estrema.

La Ue non ha social, ma legifera

Sono americane le Big Tech che possiedono le piattaforme social usate in tutto il mondo, a parte la Cina che ha del suo, mentre di piattaforme europee non c’è neppure l’ombra. Eppure è solo la Ue che disegna le regole al settore.

Su una sponda dell’Atlantico repubblicani e democratici passano il tempo ad audire qualche whistle blower degli affari di Zuckerberg per arrivare a scoprire l’acqua calda, ma nessuno ha proposto una legge federale che sfidi le autoregolate prassi dei Big Tech.

Così la tartaruga Europa dà le piste all’Achille americano sebbene le lobby premano sia a Washington che a Bruxelles. Evidentemente essere severi con le compagnie straniere è meno complicato che con quelle nate in patria che assicurano dividendi ai tuoi investitori e salari ai tuoi elettori.

Nel 2018 la Ue ha partorito la General Data Protection Regulation, in sigla GDPR che pone restrizioni al drenaggio e alla rivendita dei dati personali, e ha fatto da modello a leggi analoghe in giro per il mondo. E ora, dopo soli quattro anni, che per la burocrazia europea sono un battito di ciglia, arriva il Digital Markets Act, Dma, che si applica ai gatekeeper (Google, Meta, Apple, Amazon, Microsoft).

No ai monopoli e sì alla concorrenza

Per aprire il blocco del mercato, Apple e Google, padroni dei sistemi IOS e Android, dovranno renderli compatibili con altri store on line oltre che l’Apple e il Google store; i fornitori di contenuti a pagamento (dal meteo alle news, dalla musica ai videogiochi) potranno farsi pagare direttamente, senza passare dalla piattaforma e dal pizzo esoso (30 per cento) che pretende.

Amazon non potrà usare i dati di chi gli dà i prodotti in vendita per rimpiazzarli con prodotti della casa; le piattaforme di messaggistica, a partire da Whatsup non potranno restare come sistemi chiusi, ma comunicare tra di loro così come avviene tra gli utenti che si chiamano anche se pagano il servizio a differenti compagnie.

Google non potrà mischiare i dati di You Tube con quelli del motore di ricerca, di Gmail e di Googlemap per profilare l’utente come a nessun altro riuscirebbe, con il che salta il modello di business dei “servizi interconnessi” (fra posta, stores, social e hardware) che intrappola l’utente e chiude gli spazi a ogni concorrente che miri a farsi sotto (roba vecchia, e sempre perniciosa, pronta a imbarbarire la politica come insegna il nostro televisivo modello di Duopolio).

Per i trasgressori c’è la multa fino al 20 per cento del fatturato globale.

Per i Big Tech è la fine della pacchia, dice in sostanza Margrethe Vestager, vice presidente della Commissione europea, quando annuncia che «ora debbono rispettare un insieme ben definito di obbligazioni e regole».

La responsabilità editoriale dei social

Una volta affisso il Gdpr che rende l’utente proprietario dei suoi dati, e il Dma che separa il mercato dagli interessi dei monopoli tech, la Ue pare giunta perfino al terzo passo decisivo riguardo alla responsabilità (quale, quanta e come) delle piattaforme rispetto ai contenuti che veicolano.

Le voci raccolte sulla stampa americana dicono che l’Ue stia per imporre una maggiore disciplina dei comportamenti degli utenti. Cosa si intenda è tutto da scoprire, dettaglio per dettaglio.

Ma le intenzioni sono fiere se Thierry Breton, commissario Ue al Mercato interno, vede «la fine del Selvaggio West negli spazi dell’informazione a beneficio delle democrazie».

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