«Tre partiti europei prendono decisioni tra loro e si spartiscono le nomine, ma il progetto europeo era quello di coinvolgere tutti. Adesso non è così. L’Ungheria non può accettare il patto sui top jobs». Anche questo lunedì, in conclusione delle dichiarazioni congiunte con Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, con il suo affondo Viktor Orbán ha giocato il ruolo del cattivo d’Europa. E anche stavolta, come ai tempi della cancelliera Angela Merkel, il gioco di Orbán fa anzitutto gioco a qualcun altro: Giorgia Meloni può infatti far valere in Consiglio europeo un ruolo di interpolazione con la presunta mina vagante dell’Ue.

Ecco perché, dopo l’incontro a Chigi, la premier da una parte ha sottolineato – col premier filorusso a fianco – la sua posizione su Ucraina e Nato, e dall’altra ha detto di aver «apprezzato che l’Ungheria abbia consentito di assumere decisioni in sede Nato e Ue anche quando non era d’accordo»: tra i crediti che Meloni vuol vantare con il Ppe e coi leader europei c’è anche quello di negoziare con Orbán quando pone i suoi veti tattici.

Isolamenti incrociati

Orbán e Meloni non condividono soltanto una traiettoria di derive illiberali, fatta di attacchi ai media e accentramento di poteri. Il loro terreno di incontro è pure l’obiettivo di avvicinarsi il più possibile a quello stesso potere che a livello retorico spesso bersagliano (come da Chigi il premier ha pure fatto). Per Meloni si tratta di acquisire influenza col Ppe, per Orbán si tratta – vista la proprietà transitiva – di averne con Meloni stessa. Entrambi hanno come scopo quello di uscire dall’isolamento, Meloni in termini di negoziati per le nomine e Orbán perché ancora orfano di famiglia europea.

Entrambi hanno plasmato in questa direzione l’incontro a Roma, che fa parte di un tour orbaniano delle capitali in vista dell’esordio della presidenza ungherese dell’Ue a luglio. Il premier ungherese ha già esibito la settimana scorsa una sintonia con il cancelliere Olaf Scholz, sottolineando la contiguità di rapporti economici tra l’Ungheria e le manifatture tedesche; e domani vola a Parigi. La premier italiana deve uscire dall’angolo nel quale è apparsa relegata allo scorso summit informale tra i leader europei, così da poter strappare almeno qualche concessione al Consiglio europeo di giovedì e venerdì, dal quale ci si aspetta un accordo sulle nomine.

La strategia di Meloni

Per capire in che modo il gioco di ruolo con Orbán possa essere utilizzato da Meloni a livello negoziale, bisogna partire dalla sua strategia.

Anzitutto, dopo che socialisti e liberali hanno posto come condizione che Fratelli d’Italia non entri nella maggioranza europarlamentare, alla leader conviene far valere il proprio peso come presidente del Consiglio di un paese fondatore, prima ancora e più che come guida dei Conservatori. «Le nomine vengono discusse a livello di capi di governo», risponde non a caso il meloniano capogruppo di Ecr Nicola Procaccini quando gli si chiede dei negoziati nei corridoi di Bruxelles. E rincara la dose Antonio Tajani, sponsor degli interessi della premier col Ppe del quale fa parte: anche questo lunedì dal Lussemburgo ha insistito che l’Italia, come «seconda manifattura d’Europa» nonché «governo più stabile dell’Ue», deve avere una vicepresidenza di Commissione e deleghe di peso. Che ad assumerle sia Raffaele Fitto «sarebbe eccellente ma sarà Meloni a dire l’ultima parola».

Al vertice di giovedì Meloni troverà conveniente far valere il proprio ruolo istituzionale, quindi. Poi c’è la negoziazione sotto traccia, e la si intuisce da queste altre parole di Procaccini: «Ci sono due gruppi a noi vicini, i Popolari e Identità e democrazia, e questa è la nostra posizione politica». O come direbbe Meloni: «Ho il pregio di poter parlare con tutti». Mantenere un canale coi sovranisti di vario conio rappresenta un argomento potente nei confronti del Ppe: già una volta, nel 2021, Meloni ha boicottato l’unione delle estreme destre, e mantenerle disarticolate è tuttora un prezzo pagato al Ppe, oltre che un modo per mantenere la guida dei processi.

Lo sforzo di Orbán

Questo lunedì Orbán ha conclamato che ormai l’ingresso di Fidesz nei Conservatori è fuori discussione – «di questo si è parlato lunedì scorso» – ma che «siamo stati d’accordo la settimana scorsa con Meloni nel ribadire che nonostante ciò rafforzeremo la cooperazione tra partiti di destra europea pur non facendo parte della stessa fazione». Insomma fuori da Ecr, ma godendo di un ruolo da pontiera di Meloni; mentre lei col Ppe può vantare di aver tenuto disarticolato il fronte della destra estrema. Il despota ungherese annaspa per uscire dalla marginalizzazione nella quale si trova da tempo a livello europeo: prima il divorzio dal Ppe nel 2021, poi la premier stessa che da presidente dei Conservatori europei gli sbatte di fatto la porta in faccia.

Nel mondo orbaniano nulla è come sembra: succede così che il despota scelga come slogan per la presidenza di turno ungherese un motto di trumpiana memoria – «Make Europe Great Again» – ma che si ritrovi con le briciole in mano. La scorsa settimana Ecr ha ufficializzato l’ingresso dell’estrema destra romena di Aur e quindi un no de facto all’entrata di Fidesz, mentre per questa settimana si fanno insistenti i rumor sulla ufficializzazione di un nuovo gruppo di estremissima destra giovedì. Si tratta del cantiere estremista avviato dall’ala identitaria di AfD dopo l’uscita da Identità e democrazia; cantiere di cui si è scritto su Domani già il 5 giugno e che congregherebbe filorussi bulgari di Vazrazhdane, neofascisti polacchi come Konfederacja e neonazisti ungheresi come Mi Hazank. Il premier che da anni va predicando l’unione delle destre estreme assiste al loro progressivo sgretolamento, con gran gioia del leader dei Popolari Manfred Weber (divide et impera), e con Meloni pronta ancora una volta a rivendicare col Ppe l’operazione.

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