«Le tiroir», per dirla in francese come ha fatto questo mercoledì Enrico Letta da Bruxelles, e cioè «il cassetto»: è questo il peggior incubo di almeno uno dei due italiani che in questi giorni sono al centro delle attenzioni in Unione europea. Finire nel cassetto, archiviati.

Lo ha detto esplicitamente l’ex segretario del Pd riferendosi al suo rapporto sul mercato comune, che viene presentato e discusso con i capi di stato e di governo nel Consiglio europeo speciale in corso in queste ore.

Ma viene da pensare che il rischio di archiviazione – o per dirla con il gergo della politica, l’eventualità di «bruciarsi» – sfiori anche il nome di Mario Draghi per i top jobs – cioè le nomine Ue – da assegnare dopo il voto di giugno.

L’inflazione di Draghi

Viene da pensarlo combinando le due tendenze in corso nella capitale belga nelle ultime ore.

Da una parte il nome di Draghi diventa sempre più inflazionato, tanto che pure i cosiddetti sovranisti esprimono apprezzamento: martedì Viktor Orbán se n’è uscito con un «Draghi mi piace!», il giorno seguente l’ex premier polacco Mateusz Morawiecki ha pure espresso apprezzamento.

Ma al contempo, e non per caso, uno dei principali sponsor dell’ex premier e governatore Bce si sta premurando di sgonfiare la bolla. «Non si fa politica così», ha detto infatti, un po’ stizzito, il presidente francese Emmanuel Macron questo mercoledì: «Le nomine si fanno il giorno dopo il voto». Una cautela che l’Eliseo non riserva al futuro vertice Nato: «Mark Rutte mi pare una buona scelta».

Aspettare a esporsi pubblicamente, quando nomine e negoziati sono ancora in una fase delicata, è una strategia che del resto piace anche alla premier italiana: all’Europarlamento i suoi non hanno partecipato ai tentativi di silurare politicamente Ursula von der Leyen per lo scandalo Pieper, ma Meloni – interrogata su un bis della attuale presidente di Commissione – preferisce prendere tempo, come ha già fatto allo scorso Consiglio europeo. Macron e Meloni si erano confrontati a riguardo.

Per il presidente francese – come ha voluto precisare questo mercoledì – «Draghi è un amico formidabile, ha fatto grandi cose, anche da premier». Ma esporre troppo una nomina è il modo migliore per depotenziarla; lo dimostra l’ondata di perplessità che la candidatura di von der Leyen sta catalizzando.

La tendenza del momento

Nel frattempo ovviamente i negoziati fervono ben prima del voto. Il summit tra leader, cominciato il 17 con una cena e che prosegue il giorno dopo, è l’occasione anche per questo tipo di interlocuzioni informali.

Ufficialmente si discute del tema del momento: dopo la parola magica della «resilienza», che durante la crisi pandemica era stata adottata come zeitgeist dai vertici brussellesi, adesso il tormentone è la «competitività». Draghi a giugno presenterà il suo rapporto sul tema. Questo è il momento del report di Letta; ma anch’esso è strettamente collegato alla stessa visione di insieme.

Quando Charles Michel, il presidente del Consiglio europeo, dice – come ha fatto questo mercoledì mattina – che «la prossima Commissione europea dovrebbe avere un’ambizione economica», riflette una tendenza già in corso: quella che mette al centro le imprese. Sia Letta che Draghi ragionano su una strategia che costruisca un ecosistema favorevole all’industria, utilizzando fondi pubblici europei, e non solo.

Non è tanto sull’intenzione politica, quanto sulle modalità, che il dibattito fra leader è aperto. «Concordiamo sempre di più sull’idea di aumentare la competitività, e di incentivare la difesa. Su come finanziare tutto questo, il dibattito non finisce ora: per gli eurobond bisogna ancora raggiungere il consenso», come ha sintetizzato questo mercoledì Michel. Su indebitamento comune e dintorni «c’è un’ottima proposta della premier estone Kaja Kallas, anche quella francese del commissario Thierry Breton mi piace, ma servirà un accordo», ha detto pure Letta.

«Il punto generale è che sul versante industriale bisogna ragionare su dimensioni più grandi, e che bisogna poter finanziare la difesa: è una vergogna che il 78 per cento delle forniture non sia europeo, anche se lo finanziano gli europei».

Il mercato secondo Letta

Da presidente dell’Istituto Jacques Delors, Letta cita questa eredità politica – «il mercato interno è stato lanciato da Delors» – per poi proporre una versione 2.0 di mercato comune, raccolta nel report lungo centocinquanta pagine e preceduto da «400 incontri svoltisi in tutti gli stati membri dell’Ue».

Quando l’ex guida del Pd dice che il principale timore è che questo lavoro finisca «nel cassetto», si riferisce alla volontà politica di dargli un seguito; ma «questo è un buon momento», come nota Michel. Letta ha fatto una proposta «immediatamente ricevibile, che non richiede riforme dei trattati», e che estende l’idea di mercato comune «oltre le quattro libertà già in atto, ovvero beni, servizi, persone e capitali» verso una «quinta libertà».

Enrico Letta ragiona in particolare «su energia, telecomunicazioni e mercati finanziari». Integrare mercato interno e finanziario «sarà un fattore di svolta» secondo Letta, che con il suo report sta contribuendo alla visione complessiva che caratterizza quello venturo di Draghi sulla competitività: l’idea è di favorire finanziamenti pubblici, investimenti, strumenti finanziari condivisi, così da poter facilitare il passaggio di livello delle imprese europee – «to play big, giocare in grande», per citare l’analisi lettiana - e renderle così più «competitive» verso gli altri attori globali.

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