Da Bruxelles sta precipitando su Roma la «procedura per deficit eccessivo». Si chiama così perché è di conti fuori norma che si tratta. Ma nel pieno dei negoziati sulle nomine Ue l’espressione va tradotta in termini politici, per i riverberi che ha: da una parte al governo Meloni arriva la bastonata per i conti pubblici, dall’altra si prospetta una carota, e cioè la possibilità di negoziare con la futura Commissione europea il piano di rientro dal deficit.

Molto più degli esercizi narrativi che descrivono la premier marginalizzata al summit fra i leader sulle nomine, la procedura per deficit eccessivo può alterare la postura negoziale di Giorgia Meloni. Che infatti questo mercoledì pomeriggio ha scalpitato: l’Europa «si è spostata a destra ma non abbastanza», all’Italia «spetta un ruolo di rango». Con la pressione dei conti da mettere a dieta, ci si sente stretti, a finire nell’angolo nei negoziati per le nomine come è successo in apparenza a Meloni alla cena tra leader di lunedì sera.

Miliardi di tagli

Questo mercoledì i commissari europei Paolo Gentiloni e Valdis Dombrovskis hanno comunicato che Bruxelles ritiene giustificata l’apertura di una procedura per deficit eccessivo per sette paesi europei, di cui cinque – come Italia, Belgio e Francia – fanno anche parte dell’Eurozona. Anche stavolta l’Italia di Meloni – che nel 2023 ha registrato un deficit pari a ben il 7,4 per cento del Pil e un debito pubblico del 137 per cento – si ritrova in compagnia dell’Ungheria di Orbán, oltre che di Polonia, Malta, Slovacchia.

«D’altronde con il boom di deficit non potevamo certo pensare di stare sotto il tre per cento», ha commentato il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, dicendosi «per nulla sorpreso». Roma dovrà tagliare circa dieci miliardi, cioè una cifra pari allo 0,5 per cento del Pil, che corrisponde allo sforzo minimo richiesto ai paesi sotto procedura nel quadro nel nuovo patto di stabilità. Per confermare il cuneo fiscale e l'accorpamento delle aliquote Irpef ne servirebbero viceversa circa venti in più.

Flessibilità da negoziare

Da qui all’autunno si gioca un negoziato decisivo tra il governo meloniano e Bruxelles. Per dirla con Gentiloni, «vogliamo dare agli stati margine di manovra per elaborare i loro piani e discuterne con la Commissione europea. Si tratta di qualcosa di completamente nuovo» perché si inserisce nel quadro del patto di stabilità in versione riformata e «richiederà grandi sforzi sia a noi che agli stati: non è già tutto deciso».

Si tratta appunto di negoziare un piano di rientro con Bruxelles. Venerdì la Commissione comunicherà al governo il percorso della cosiddetta traiettoria tecnica di riduzione del disavanzo, ma non sarà reso pubblico. Già questo è un indice dei margini di manovra che al governo vengono prospettati per la sua gestione del bilancio.

A luglio poi la Commissione farà avere la sua proposta al Consiglio, che deciderà verosimilmente il 16 luglio. Il vero negoziato si concretizza da lì all’autunno: entro il 20 settembre gli Stati devono presentare i loro piani di medio termine, che vanno sintonizzati con Bruxelles. Si tratta di definire il piano preciso di correzione dei conti, e poi ci saranno tra i quattro e i sette anni per garantire l’obiettivo generale di riduzione dell’indebitamento.

Una sponda a Bruxelles?

Meloni ha bisogno più che mai di una presidenza di Commissione dialogante. Von der Leyen si è mostrata dialogante se non compiacente: si è prestata ai molteplici viaggi non solo in Italia ma pure a Tunisi, ha introiettato la propaganda meloniana sui migranti, ha corteggiato fino all’ultimo Fratelli d’Italia, ha definito la premier una «europeista» rispettosa dello stato di diritto.

L’ultimo gentile omaggio è arrivato questo mercoledì: come Domani ha potuto riscontrare, la pubblicazione del rapporto sullo stato di diritto nella quale è certificato l’attacco di Meloni alla libertà di informazione è stata rinviata dalla Commissione al 24 luglio, cioè dopo la decisione sulle nomine e un eventuale voto dell’Europarlamento.

Fonti riservate del Ppe dicono a Domani di confidare che la premier possa sostenere von der Leyen se al Consiglio della prossima settimana si voterà sulla sua nomina, come è atteso. Il Ppe deve a questo punto tenere aperte le trattative sul portafoglio del futuro commissario italiano: i contatti tra Weber e il governo sono costanti, e facilitati dal pontiere Tajani.

Uscire dall’angolo

C’è inoltre la prospettiva, condivisa tra Weber e Meloni di continuare la cooperazione «sui dossier», come la premier ha detto questo mercoledì, spinta dalla necessità di esibire un suo coinvolgimento: sugli incarichi apicali «non si profila un cambio di passo», o per dirla altrimenti, non tocca palla.

«Intendo rivendicare per l’Italia un ruolo di massimo rango», ha detto la premier forte del fatto che da ieri il suo gruppo, Ecr, ha superato in seggi quello liberale. Tajani parla di «vicepresidenza di peso»; chi conosce le dinamiche brussellesi sa che una vicepresidenza di Commissione non significa necessariamente un ruolo decisivo.

Una possibilità minima per Meloni è che il ministro Raffaele Fitto – colui che ha aperto la cooperazione con Weber – vada quantomeno a gestire i fondi di coesione (i suoi interventi degli ultimi mesi lo fanno intendere). Le speculazioni della stampa nostrana su deleghe a «Pnrr e bilancio» lasciano intendere che possa esserci poi una operazione di maquillage propagandistico: il Pnrr è un piano nazionale, il livello europeo è Next Generation Eu e arriva solo al 2026; la delega al bilancio in Commissione Ue si riferisce al bilancio dell’Ue, ed è al momento coperta da Johannes Hahn; i ruoli chiave per il debito sono quelli di Gentiloni e Dombrovskis.

Già in passato Meloni ha preferito una vittoria di propaganda – il memorandum con la Tunisia – a un ruolo decisivo – cioè a incidere sui negoziati per il nuovo patto di stabilità. Chissà che non faccia lo stesso errore ora che quel patto lo si paga.

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