«Continuiamo a lavorare per dare finalmente all’Italia il peso che le compete in Europa», ha voluto far sapere Giorgia Meloni nella tarda notte tra giovedì e venerdì, sùbito dopo aver fatto scivolare l’Italia ai margini del tavolo del Consiglio europeo, in un angolo nel quale soltanto un altro paese era stato infilato dal suo leader, e cioè l’Ungheria con Viktor Orbán.

Con una astensione su von der Leyen e i voti contrari su Costa e Kallas, Meloni si è di fatto esclusa dal livello decisionale, e facendo dei negoziati sulle nomine una partita di propaganda, ha marginalizzato anche il paese. Che prima della sua èra di governo aveva avuto commissari di peso, con portafogli di rilievo, e che invece l’esecutivo attuale porta a fare la questua: «Vogliamo un vicepresidente e un portafoglio di rilievo», esibisce da giorni il vicepremier Antonio Tajani, mentre a memoria neppure Silvio Berlusconi, da lui rievocato per le liste alle europee, e che in Europa di rumore ne faceva, ha avuto bisogno di chiedere così rumorosamente una vicepresidenza e la delega all’industria per Tajani stesso anni fa.

Prima che Meloni arrivasse a «lavorare per dare all’Italia il peso che le compete in Europa», l’Italia in Europa aveva gestito con un ruolo chiave – la delega agli Affari economici – la delicata e inedita fase dell’indebitamento comune; e nessuno sui giornali andava a rumoreggiare di deleghe creative al Pnrr. Prima ancora, c’erano stati presidenti della Commissione europea italiani (Romano Prodi), commissari alla Concorrenza (Mario Monti) e così via.

Questa settimana si è chiusa una fase, quella dei negoziati per le nomine, e al contempo si è aperta una fase se possibile ancor più delicata, non soltanto per la definizione di commissari e portafogli, ma per ben altro. Se l’elezione di Ursula von der Leyen a presidente di Commissione europea dovesse saltare, all’Europarlamento, si tornerebbe al punto di partenza, cioè si riaprirebbe – con presupposti ancor più caotici – la fase iniziale delle nomine.

In fondo al tavolo

Anche se contesta «una logica da maggioranza e opposizione» che a suo dire sarebbe stata usata dagli altri capi di stato e di governo, è proprio la premier italiana ad aver politicizzato e anzi partitizzato le dinamiche di alto livello dei leader. Mentre Meloni giustificava l’astensione su von der Leyen con «il rispetto delle diverse valutazioni tra i partiti della maggioranza di governo» – come se non spettasse alla presidente del Consiglio la capacità di sintesi – intanto persino il suo alleato ceco Petr Fiala, compagno nel gruppo ormai allo sbando dei Conservatori europei, le dava lezioni di stile e di entusiasmo, congratulandosi coi tre nominati e annunciando da lì in poi «una benefica cooperazione» Bruxelles-Praga.

Bisogna allora tornare a quel frangente del Consiglio europeo in cui Meloni trasferisce l’Italia in zona Ungheria, come ha già fatto su altri fronti, ad esempio negli indici negativi sulla libertà di stampa. Fino all’ora di cena di giovedì, quando ancora si è discusso soltanto dell’agenda strategica, fonti vicine alla presidenza del Consiglio europeo riferiscono di una Meloni con attitudine «costruttiva». Poi però sul tavolo dei leader, assieme alla sogliola di Ostenda, arriva anche il pacchetto di nomine da discutere, e lì la premier estromette l’Italia dalla ricerca di un denominatore comune.

Si astiene su Ursula von der Leyen presidente della Commissione, la stessa che in nome della strategia weberiana di slittamento a destra la aveva spalleggiata e corteggiata politicamente più volte; lo ha fatto pure prima di questo vertice, inviando ai leader una lettera sull’immigrazione che in alcuni passaggi poco si discostava da un volantino programmatico di Fratelli d’Italia. Ma al momento di scegliere se inserirsi in corsa nel percorso decisionale o meno, Meloni preferisce né sì né no: astensione e poi si vedrà in aula, «il tema – dice – non è von der Leyen ma le politiche che intenderà portare avanti e su questo non abbiamo risposte».

La premier arroga a motivazione anche le posizioni diverse dentro la propria maggioranza, spostandosi perciò lei stessa da una logica di capo di stato a una di beghe di partito. Poi vota contro António Costa alla presidenza del Consiglio europeo e Kaja Kallas alto rappresentante, nonostante condivida con la premier estone l’ostentato supporto a Kiev.

L’autoisolamento di Meloni

Ma Meloni ha una priorità, e ha i tratti della propaganda: vuole segnalare visibilmente il suo disallineamento «nel merito e nel metodo». Persino Orbán si mostra più pragmatico di lei, perché su von der Leyen vota contro, su Kallas si astiene, ma vota in favore del socialista Costa sapendo che tanto tutti questi nomi passeranno (tra gli altri leader c’è totale consenso) e che quindi è meglio usare diplomazia con chi dal giorno dopo coordinerà il lavoro tra governi, compreso qualche dossier ostico per il proprio esecutivo.

Un colpo a Meloni era arrivato martedì, con la soffiata dell’accordo già blindato tra popolari, socialisti e liberali, partita col beneplacito di Berlino dopo che Olaf Scholz e tutti i socialisti si erano già impegnati anche per iscritto a tener fuori l’estrema destra dal governo dell’Ue. Ma di fronte al margine di manovra che si chiudeva, invece di svicolare, Meloni si è messa ancor più nell’angolo da sola, andando a dire in aula di una conventio ad excludendum contro di lei, anzi contro «l’Italia».

I toni sono stati così accesi che sarebbe stato difficile tornare indietro, eppure per tutta la giornata di giovedì i leader dei Popolari europei hanno offerto alla premier espedienti per tirarsi fuori dall’angolo, insistendo che «non esiste Europa senza Italia e quindi decisione senza Meloni» (parole del premier polacco Donald Tusk, negoziatore del Ppe). La mano tesa serviva anche a facilitare a von der Leyen il negoziato per andare a prendere uno per uno i voti in aula. Ma niente.

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