A distanza di poco più di tre mesi dalle elezioni per il Parlamento europeo di giugno, l’ultimo accordo raggiunto a fatica per regolare il settore della gig economy è definitivamente sfumato. Venerdì 16 febbraio un blocco minoritario di stati formato da Francia, Germania, Grecia ed Estonia ha scritto la parola fine alla direttiva europea sul lavoro di piattaforma di cui si è iniziato a discutere per la prima volta nel dicembre 2021. La Francia ha votato contro, gli altri stati si sono astenuti.

Secondo le norme dell’Unione, il Consiglio può approvare una nuova legislazione solo se gli stati che rappresentano il 65 per cento della quota di popolazione europea votano a favore: da sole Germania e Francia coprono un buon 33 per cento, percentuale che unita a quella di Estonia e Grecia ha assicurato che gli altri 23 paesi membri non potessero cambiare le sorti della direttiva. Il commissario europeo Nicola Schmit ha espresso profonda delusione per il mancato raggiungimento dell’accordo per il miglioramento delle condizioni lavorative del settore.

L’ultimo voto possibile

Il voto dello scorso venerdì era già stato preannunciato come l’ultimo possibile per rendere operativa una direttiva europea in tempi brevi. Non è per nulla scontato infatti che l’assetto del Parlamento europeo dopo le elezioni di giugno sia propenso a discutere nuovamente sul tema, né che lo faccia negli stessi termini utilizzati finora.

Leïla Chaibi, deputata francese, ha chiaramente puntato il dito contro il presidente Macron: «Macron ha seppellito la direttiva dei lavoratori di piattaforma» si legge in un post sulla piattaforma X, «il voto contrario in Consiglio segna la fine del progresso sociale per milioni di lavoratori». Ha inoltre invitato il presidente francese a non presentarsi più come il difensore di un’Europa al fianco dei lavoratori.

L’europarlamentare Elisabetta Gualmini, relatrice della proposta di direttiva e appartenente al gruppo di alleanza socialisti e democratici, ha rilanciato il post del gruppo politico su X in cui Francia, Estonia, Grecia e Germania sono accusati di aver «sprecato un'opportunità storica per proteggere i lavoratori del settore digitale».

Il percorso legislativo

L’Unione europea ha iniziato a mettere su carta una regolamentazione comune nel crescente settore della gig economy tre anni fa. Il percorso legislativo ha però incontrato numerosi ostacoli negli ultimi mesi, quando si sono svolti i negoziati con gli stati membri.

Già all’inizio di febbraio il testo della possibile direttiva europea era stato depotenziato rispetto al precedente soprattutto a causa delle pressioni dell’Eliseo, che di fatto non ha mai riconosciuto il fulcro della proposta: la presunzione di subordinazione dei lavoratori delle piattaforme.

Se non fosse stata bocciata, la normativa avrebbe dato in mano ai milioni di lavoratori e lavoratrici la possibilità di vedersi riconoscere una posizione di subordinazione nei confronti delle piattaforme tecnologiche.

Alle multinazionali sarebbe toccato l’onere della prova del contrario. Così come di altre tutele in termini di trasparenza algoritmica. Come sottolineato dal deputato dei Verdi olandesi e vice relatore della direttiva, Kim Van Sparrentak, in un post su X, «le decine di milioni di euro utilizzati per il lobbying sono state ripagate».

L’affossamento della proposta di direttiva sulla gig economy è dovuto, come in molti altri casi simili, al delicato equilibrio che si instaura tra paesi favorevoli e contrari. Da una parte la Francia, da sempre particolarmente contraria alla possibilità di garantire lo status di subordinazione ai lavoratori di piattaforma e seguita da una decina di stati. Dall’altra la Spagna con una posizione diametralmente opposta e in generale favorevole all’intero testo della direttiva, seguita da una decina di altri stati membri. I restanti si sono spostati da una posizione all’altra nel corso del tempo.

Il vero ago della bilancia è però la Germania, che unita alla Francia costituisce più del 30 per cento della popolazione dell’Ue e quindi definisce le sorti di questa come di altre proposte di direttiva europee. Germania che negli ultimi due anni si è astenuta in tutti i voti del Consiglio. Un paradosso visto che nel paese tedesco una normativa nazionale prevede già che i lavoratori delle piattaforme debbano essere assunti con un contratto di subordinazione, a differenza della maggioranza degli stati Ue.

Nonostante ciò negli ultimi anni gli scioperi dei lavoratori del settore non sono mancati, segno che probabilmente una direttiva europea che definisse tutele chiare ed estese in tutto il continente fosse vista come migliorativa anche nel paese tedesco. Per ora però, da Bruxelles c’è stata solo una fumata nera.

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