Viktor Orbán la fa ancora franca, ma solo in parte. I buoni rapporti con le destre europee e con la Germania continuano a aiutarlo, ma le condizioni della democrazia e dell’economia ungheresi sono così malconce che neppure Bruxelles può far finta di nulla. Così per la prima volta 6,3 miliardi destinati all’Ungheria restano congelati. Troppo poco, troppo tardi. Il declino dello stato di diritto procede spedito da tempo, e l’Ue ci ha messo anni prima di riuscire a fare questo passo, assai più piccolo di quel che si poteva. L’accordo concluso dai rappresentanti dei governi europei è rivelatore.

L’accordo

Lunedì notte sono stati chiusi in simultanea quattro dossier nell’aria da tempo. Non è un caso, ma una conduzione precisa della presidenza di turno ceca. Significa da una parte che il Consiglio si arrende alla tattica dei veti, la preferita di Orbán; e dall’altra, che prova a dominarla a modo suo, cioè trattando in modo congiunto i dossier che l’Ungheria blocca, e quelli che la riguardano.

Il “pacchetto” si è concluso così: cade il veto ungherese sulla tassa globale per le multinazionali, si sblocca il piano per un prestito comune all’Ucraina, e l’autocrate ungherese ottiene il tanto atteso via libera al suo Pnrr, anche se condizionato: come previsto dalla Commissione Ue, dovranno essere rispettati alcuni impegni sullo stato di diritto perché effettivamente i soldi partano.

Poi c’è il quarto pilastro dell’accordo, ed è quello politicamente più interessante: per la prima volta viene innescato il meccanismo che condiziona in generale i fondi Ue al rispetto dello stato di diritto, ma in una versione degradata rispetto alle possibilità. Viene applicato solo su una piccola fetta di fondi, e se già Bruxelles si era limitata a 7,5 miliardi dei fondi di coesione da bloccare, i governi hanno ulteriormente abbassato a 6,3.

Il ruolo di Meloni e Scholz

Come si è arrivati a questo compromesso? Italia e Germania giocano un ruolo interessante.

Come ha raccontato a Domani l’eurodeputato meloniano Nicola Procaccini, «congelare i fondi a Orbán è una barbarie». Fratelli d’Italia sa che «prima o poi qualcuno ci proverà anche con l’Italia», a far leva sullo stato di diritto; e inoltre il tema pesa già sulla Polonia, alleata europea di FdI. Quando la Commissione propone di congelare 7,5 miliardi e di dare un sì condizionato al Pnrr, Roma però trova una linea comune con Berlino e Parigi. La linea è di compromesso: si tratta di chiedere a Bruxelles di rifare la sua valutazione e di applicare il meccanismo «in modo proporzionale». È ciò che effettivamente accade nell’accordo di lunedì notte: i governi fanno lo sconto a Orbán, e invece di 7,5 miliardi ne sforbiciano solo 6,3. Per «proporzionalità» si intende il riconoscimento all’Ungheria degli sforzi fatti; una scelta tutta politica.

Come fanno a incontrarsi su questo Roma e Berlino? Nell’èra Merkel, la Germania ha trascinato l’Ue al compromesso con Orbán per l’interdipendenza asimmetrica tra le economie dei due paesi; nell’èra Scholz, il premier ungherese ha provato a far leva sulle stesse dinamiche. A ottobre a Berlino ha incontrato Scholz, ma pure Merkel, e soprattutto gli imprenditori tedeschi, desiderosi di condizioni più favorevoli per le loro manifatture.

Queste dinamiche ancora pesano; al contempo, l’ala verde del governo spinge sulla rule of law. Risultato: un compromesso, in Germania e nell’Ue. La verde Anna Lührmann, sottosegretaria tedesca all’Europa, intervistata da Domani a inizio dicembre, sosteneva: «L’importante è arrivare a una maggioranza in Consiglio»; un accordo che tenesse dentro anche Meloni, amica di Orbán, era reputato un successo. «La Commissione rifaccia la sua valutazione sull’Ungheria, e riconosca i passi avanti», chiedeva Lührmann.

La Commissione si è rifiutata, ma i governi hanno ridotto i fondi da bloccare.

Forze e debolezze

Se qualche fondo è congelato, lo si deve anzitutto all’Europarlamento: nell’èra Sassoli ha ottenuto il meccanismo di condizionalità, e poi ha spinto la Commissione ad applicarlo. Nonostante la presidenza di Metsola si fondi sull’accordo con l’estrema destra, e nonostante lo scandalo Qatar, l’Europarlamento resta l’istituzione più forte sui diritti.

Orbán invece è più debole. Con la Polonia, non è stato attivato il meccanismo di condizionalità; pesano le protezioni politiche Usa, e inoltre l’Ungheria – ancora orfana di famiglia politica europea - attraversa burrasche economiche; a novembre l’inflazione era al 22,5 per cento.

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