18 aprile 1948-18 aprile 1993. Quarantacinque anni racchiusi in una sola data simbolo. Le prime elezioni politiche del 1948 hanno rappresentato uno spartiacque non solo sul piano elettorale. All’Assemblea costituente del 1946 gli equilibri di forza avevano visto prevalere la Democrazia cristiana che, proprio nel 1948, ha raggiunto il massimo in percentuale (48,5) che le ha consentito di avere la maggioranza assoluta dei seggi.

La contrapposizione tra la Dc e suoi antagonisti è culminata nella formazione del Fronte popolare social comunista che però ha raccolto meno consensi sia dei democristiani, sia di quanto avuto nel 1946 dai rispettivi contraenti l’alleanza. Il mondo era diviso in due blocchi contrapposti e l’Italia in sedicesimo rappresentava benissimo quel muro ideologico che tagliava l’est e l’ovest.

Molto peso sul voto e sulla strutturazione del sistema partitico è venuto dal post Seconda guerra mondiale e dagli equilibri geopolitici della “cortina di ferro”. Quel risultato ha permesso ad Alcide De Gasperi di varare il quinto esecutivo a sua guida, in un quadripartito che teneva conto del realismo dei rapporti di forza, ma anche della necessità di tenere nell’orbita Dc i “partiti minori” sia per evitare fughe a “destra”.

Nel 1947 De Gasperi era volato negli Stati Uniti per riceverne l’appoggio politico-economico in cambio della rassicurazione sull’esclusione delle sinistre. Il dato del 1948 è stato decisivo e strutturante per molti aspetti. Il voto ha definito l’assetto coalizionale e, pur con la successiva “apertura a sinistra” verso i socialisti e il primo centro-sinistra organico degli anni Sessanta, è rimasto immutato e immutabile l’antagonismo anticomunista. E, dall’altro lato, l’irricevibilità della proposta neofascista del Msi, (auto)escluso dall’arco costituzionale.

La stabilità del personale politico

La presenza di due partiti anti sistema (Pci e Msi) e l’impraticabilità dell’alternanza al governo, hanno indotto entrambi i campi all’irresponsabilità: l’opposizione avanzando proposte “radicali” e non verificabili perché non avrebbe governato, mentre per la Dc è successo invece che si innescasse una logica di non sanzione e, per taluni, anche la percezione dell’impunibilità, non solo elettorale, stante l’inamovibilità del partito dal governo.

Lo schema “stabile” ha portato crescita economica, ruolo internazionale, ma anche aumento del debito pubblico, della corruzione, del malcostume, della burocrazia, delle inefficienze, proprio quale conseguenza della non circolazione delle élite. Il sistema elettorale (iper)proporzionale, i vincoli esterni e la dinamiche nazionali, hanno contribuito a strutturare il sistema partitico per mezzo secolo. La Democrazia cristiana al centro politico e di potere del governo in Italia e il Pci alla guida dell’opposizione, due mondi inconciliabili che si sono avvicinati negli anni di piombo per gestire l’emergenza terroristica rosso-nera e con il tentato «compromesso storico» di Enrico Berlinguer e Aldo Moro.

Un sistema politico-partitico strutturato da vincoli esterni e ossificato per incapacità di riforme profonde interne non poteva che rinnovarsi solo grazie a fattori esogeni.

All’inizio degli anni ‘90, il sistema politico italiano ha iniziato a sgretolarsi tra drammatici cambiamenti nel sistema internazionale con la caduta del muro di Berlino che ha sancito simbolicamente la fine della Guerra fredda; l’attivismo giudiziario e investigazioni che hanno portato a Mani Pulite e a una diffusa disaffezione popolare, culminata in diversi referendum.

La riduzione delle preferenze

Il referendum abrogativo tenutosi il 9 giugno 1991 ha modificato una componente critica della legge elettorale: ridurre a uno il numero di preferenze esprimibili. La quasi totalità (95,6 per cento) di coloro che si erano recati alle urne (65,1 per cento), nonostante gli inviti ad «andare al mare» di Bettino Craxi e Umberto Bossi, espresse parere favorevole segnando una pietra miliare e lo scricchiolare del sistema partitico. Una sola preferenza significava impossibilità di cordate, correnti in deflagrazione su schemi prevalentemente personali, meno controllo del voto di scambio, e quindi più voto “libero”. A risentirne i partiti maggiori, quelli della “prima fase” della Repubblica.

Il 18 aprile 1993

Tra le altre conseguenze, questi eventi hanno portato all’adozione, nel 1993, di una nuova legge elettorale, ancora per mezzo di una iniziativa referendaria. Più di 8 elettori su 10 (82,7 per cento, su 77,1 per cento di affluenza) hanno approvato l’eliminazione, al Senato, della parte proporzionale della distribuzione dei seggi allorché nessuno avesse avuto il 65 per cento dei voti.

Benché un referendum si limiti all’abrogazione di leggi o parti di esse, la consultazione dell’aprile 1993 ha rappresentato una svolta nel sistema politico e del quadro elettorale. Il parlamento non poteva ignorare la “volontà popolare”, la richiesta degli elettori di determinare la formazione del governo o almeno la scelta del suo leader, limitando un processo di contrattazione tra i leader dei partiti, quale rituale consolidato particolarmente antipatico agli elettori. Su questa scia andava la nuova normativa per l’elezione “diretta” dei sindaci approvata pochi mesi prima.

Sebbene screditato dal punto di vista popolare, il parlamento è stato quindi costretto a legiferare sulla riforma elettorale prima di andare alle elezioni anticipate. La nuova legislazione ha introdotto un sistema misto maggioritario: i tre quarti dei seggi (475) assegnati in collegi uninominali con sistema plurality (maggioranza semplice), e il restante quarto (155) su liste di partito con il metodo proporzionale (liste chiuse, ai partiti che ottenessero almeno il 4 per cento a livello nazionale).

Al contrario, per il Senato, ogni regione rappresentava un distretto separato e i voti non erano raggruppati a livello nazionale (secondo una discussa interpretazione dell’articolo 57 della Costituzione). La componente proporzionale con le liste chiuse e bloccate consentiva ai capilista, spesso leader di partito, di avere un paracadute per compensare l’incognita del collegio uninominale. La parte nobile della permanenza di una quota proporzionale risiedeva nella volontà di misurare il peso di ciascuna forza politica posto che, dopo il 1992 e la temperie che ne era seguita, nessuno aveva contezza del peso elettorale di ciascun partito.

Se il 18 aprile del 1948 ha aperto la stagione democratica parlamentare, il 18 aprile del 1993 ha sancito la fine del primo sistema partitico della Repubblica, non della “Prima Repubblica”, almeno finché non cambiano le sue istituzioni. Le prime elezioni con il nuovo sistema elettorale si sono tenute nel 1994 con un sistema partitico mutato e con attori politici diversi. Da allora è cresciuta la polarizzazione anche in virtù della presenza del “fattore Berlusconi”. Oggi quella polarizzazione elettorale rimane forte sul piano teorico ma ci sono partiti di piccole e medie dimensioni e non sempre appare chiara la loro scelta di campo. Manca un 18 aprile.

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