La destra italiana è passata velocemente dal “forzaleghismo” al “fascioleghismo”. Un cambiamento avvenuto in circa decennio, ma velocizzato dal 2018 e sancito dalla scomparsa di Berlusconi. Il quale era riuscito nell’impresa temeraria, ma di successo, di tenere insieme i neofascisti di Alleanza nazionale e i secessionisti della Lega Nord. Nel 1994 il Cavaliere inventò un’efficace alleanza, declinata in una duplice coalizione che vedeva il perno di Forza Italia sostenuto al sud da Alleanza nazionale e al nord dai leghisti.

Perché era impensabile, allora, presentare candidati del Carroccio nell’odiato meridione, ed esponenti neofascisti nelle regioni della Resistenza. Tema caro a Bossi che a squarciagola rimarcò che «mai coi fascisti, mai coi nipoti dei fascisti, mai!!!», salvo poi accomodarsi qualche settimana dopo sia alle dinamiche dell’alleanza che del governo. Fini, dal canto suo, disse «con Bossi mai più, neanche un caffè», dopo che il Senatur aveva tolto la fiducia al primo esecutivo di Berlusconi.

I nero-verdi non avrebbero però governato senza l’intermediazione del capo di Forza Italia, vero collante grazie al suo carisma certo, ma soprattutto all’impero mediatico, alla forza economica, al potere di ricatto politico, alle suadenti doti persuasive anche di tipo finanziario. Molte le differenze e le divergenze che avrebbero impedito qualsiasi accordo senza l’intercessione di “Silvio”.

Neofascisti e leghisti

La Lega nord, partito d’ispirazione regionalista e con mai sopite tendenze secessioniste, An viceversa con impostazione fortemente nazionale e nazionalista. Sul piano economico i leghisti tendenzialmente più liberali e gli eredi del Msi con maggiori inclinazioni stataliste, ma oggi con le elucubrazioni delle presidente del Consiglio sul “pizzo di stato” decisamente in linea con lo spirito pro evasori che fu della Lega delle giornate “no tax”; il tratto pro stato del Msi/An si traduceva in un forte afflato legalitario, mentre la Lega utilizzava la popolarità dei magistrati nel 1992 quale onda anti-politica.

Sul posizionamento politico, i due partiti erano molto diversi: «Non rinnegare, non restaurare» di Almirante, contro i leghisti «eredi della lotta partigiana», sempre Bossi prima maniera. La Lega una sorta di “estremismo di centro” che puntava a essere una forza al di sopra dei partiti, e An che tentava di muoversi, seppur lentamente, lontano dal “polo escluso”.

Tante differenze, ma simili nell’avversione per i diversi, specialmente per i migranti, culminata nella liberticida Bossi-Fini del 2002, sotto la regia e l’egida di Berlusconi il quale non solo si tenne lontano, ma non a caso lasciò l’imprimatur ai due alfieri della lotta agli extra-comunitari.  Anche sull’Europa le posizioni erano leggermente diversificate, con la Lega in una prima fase favorevole all’Europa delle nazioni proprio in chiave antifederale, e An più defilata sul tema, ma sostanzialmente ostile.

Berlusconi custode dei nero-verdi

Berlusconi teneva insieme Bossi e Fini, ma li teneva anche a bada. In qualche misura, anche se talvolta era egli stesso a superare a destra la compagine fascioleghista, come quando diede del kapò a Martin Schulz. Salvo poi tornare nell’alveo istituzionale soprattutto quando non fossero in gioco le sorti dei gioielli di famiglia. Pragmatismo piccolo borghese, adattamento, realismo e visione.

Oggi nella coalizione di governo convivono un partito localista, nazionalista regionale, anti-statale, ma non (più) anti-sistema e di estrema destra. Caratteristiche solo apparentemente in contraddizione, ma che nel caso della Lega di Matteo Salvini coabitano quasi senza problemi. In parte, in linea con la tradizione leghista, ma con qualche rottura sul piano organizzativo ed elettorale che ha fatto delle camicie verdi un coacervo teso principalmente a difendere interessi dei grandi gruppi industriali del nord, senza ormai nessuna remora. Il partito sindacato del nord, ma senza il territorio che pure fu importante.

Dall’altro lato, Fratelli d’Italia, che alimenta la mai sopita né rinnegata fiamma e che ha iniziato un percorso inverso rispetto a quello intrapreso da Fini dal 1994-1995. Le intemerate della seconda carica dello stato quasi fosse a una manifestazione anni Settanta, le uscite senza freni di ministri e camerati ormai lieti di poter sbraitare senza filtro. Le alleanze estreme da Vox ai polacchi e agli ungheresi che riflettono quelle di Salvini con i neonazisti tedeschi, l’estrema destra francese, fiamminga e portoghese.

Spostamento a destra

Nel 2023 le differenze sono ormai minime e la competizione avviene su un campo comune di temi sui cui insistono sia Meloni che Salvini, al punto che gli elementi per distinguersi si riducono. Al contempo sulle politiche di sicurezza e identità nazionale gli alleati alzano il livello e il tono esacerbando l’estremismo di ciascuno in una spirale di radicalismo e gioco al rialzo per superare l’altro. Due partiti di estrema destra, come rivelano gli atteggiamenti degli elettori, dei militanti e degli eletti, sia in ambito nazionale che internazionale.

La fine elettorale e organizzativa di Forza Italia, destinata a trascinarsi stancamente fino alle europee tentando di evocare lo spirito (lo spettro di Berlusconi per superare il 4 per cento) segna uno sversamento principalmente verso Fratelli d’Italia, e uno spazio vuoto lasciato dagli azzurri. In passato Forza Italia era egemone su Lega (nord) e An/FdI, sia numericamente che culturalmente. L’eclissi di Forza Italia e del Cavaliere ha consegnato la destra all’estremismo, alle frange radicali della coalizione e dei gruppi revanchisti all’interno di Lega e FdI.

Una dinamica mai esistita nella politica italiana, macchinosa, lenta, dai toni accesi in passato, ma incline al compromesso, alla consociazione e saturata su posizioni mediane, talvolta anche troppo. Una novità dunque, che rischia di minare le fondamenta delle istituzioni, dell’equilibrio tra poteri e della diplomazia con i partner europei e internazionali.

Il fascioleghismo 

Al forzaleghismo, come definito brillantemente da Edmondo Berselli, di repulsione per tutti gli aspetti legati alla presenza dello stato, si è sostituito un ben più pericoloso fascioleghismo. Una miscela che somma idiosincrasia per qualsiasi regola definita invasiva (dal Green Pass al vaccino, dalle tasse, alla riduzione delle emissioni inquinanti) a dosi di radicalismo, estrema destra, autorità/autoritarismo, xenofobia, malcelato fastidio per “l’altro” con la descrizione macchiettistica e machista dei diritti civili, la denigrazione delle strutture di welfare dal reddito di cittadinanza alla sanità e all’istruzione pubblica, fiaccate da tagli e attacchi sul piano simbolico/valoriale.

La dissacrazione del calendario civico della Repubblica, dal 25 aprile al 1 maggio fino al 2 giugno eretto a una celebrazione da gagliardetto e retorica sulla nazione che inneggia chiaramente al nazionalismo. Il tutto raccolto in una melassa oratoria tesa a declamare il “buon senso”, un orrendo concetto di resa alla bestialità umana, di pre-politica, di ammiccamento al populismo o meglio al qualunquismo.

L’insofferenza per il sindacato richiama la diffidenza per i corpi intermedi, compresi i partiti, gli attacchi alla stampa, l’occupazione militare dei gangli della comunicazione pubblica e la politica per scuola e università indicano il tentativo di riscrivere la storia, dal punto di vista di coloro che avevano e hanno torto. Il familismo cortigiano e straccione per la spartizione del sottogoverno, la difesa corporativa fino al parossismo e all’atteggiamento clanico.

Il tutto riassunto in un disegno di stravolgimento della Costituzione: l’elezione popolare diretta del capo del governo senza adeguati contrappesi, senza un disegno istituzionale, e lo scalpo della secessione mascherata da autonomia differenziata, con un governo guidato da una forza che un tempo declamava l’unità dello stato, della nazione, “una e indivisibile”, come recita la nostra Carta. Che è anche antifascista. Mentre il duo Salvini-Meloni propone all’Europa e al mondo il fascioleghismo.

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