Giornate di lavoro massacranti, tra ore di straordinario che si accumulano e turni di notte che vengono ripetuti giorno dopo giorno. Reperibilità nei festivi costante, la domenica è un must, e la necessità di coprire talvolta i medici che escono per emergenze o trasferimenti di pazienti. La vita degli infermieri è sempre più dura e stressante, mentre si ritrovano costretti ad assistere troppi pazienti in ogni camera: in alcuni casi anche dieci.

Facendo calare inevitabilmente la qualità del servizio e la vicinanza umana agli ammalati. «Come potremmo?», la risposta consegnata a Domani da vari professionisti interpellati. In questo clima, lo sciopero in autunno è una prospettiva più che concreta.

Il decreto sulle liste d’attesa, approvato dal parlamento, non ha fornito le risposte necessarie. Paradossalmente il provvedimento voluto dal ministro della Salute, Orazio Schillaci, è stato il detonatore dei malumori.

Malattia canaglia

«Oggi basta che qualche collega si ammali per un paio di giorni e siamo costretti a un super lavoro. E poi, alla fine, ci serve almeno a guadagnare uno stipendio accettabile», raccontano a Domani dai reparti, preferendo l’anonimato.

La sintesi è semplice: mancano gli infermieri, oltre 60mila in tutto il paese, e non si fa nulla di concreto per ovviare al problema. Schillaci ha sempre sponsorizzato l’importazione dall’estero, dall’India o dal Kenya, con il governo dei sovranisti che pensa paradossalmente di affidarsi agli stranieri. Aiutateci a casa nostra, diventa il motto.

Addirittura il periodo di ferie, atteso da qualsiasi lavoratore, non è un piacere, anzi diventa un aggravio di lavoro talvolta insostenibile: bisogna sostituire chi non c’è, i turni diventano oversize. E fuori dalla corsia nessun riconoscimento alla professionalità degli infermieri, quindi stipendi ancora troppo bassi, in media molto meno di 2mila euro al mese. Una categoria finita nell’oblio dopo la smielata narrazione nell’era del Covid.

Il vento è cambiato, insomma, come testimoniano le aggressioni, che restano solo verbali nella migliore delle ipotesi.

Molte volte però, si finisce alle mani. Ogni giorno ha la sua violenza, da Assisi, a Foggia, a Udine, la galleria di episodi negli ultimi mesi è lunga, appendici di cronaca. A Cosenza, nelle ultime settimane «tre infermieri in servizio presso il pronto soccorso sono stati aggrediti, con prognosi che vanno dai 20 ai 30 giorni», racconta Fausto Sposato, presidente dell’Ordine professioni infermieristiche (Opi) Cosenza.

Sciopero d’autunno

Tutto questo ha portato alcune sigle a optare per lo stato di agitazione. «Il principale problema che affligge il Sistema sanitario nazionale è la carenza del personale infermieristico», insiste con Domani Andrea Bottega, segretario nazionale del Nursind, sindacato di categoria che non esclude appunto l’astensione dal lavoro in prossimità della legge di Bilancio. «Per senso di responsabilità», aggiunge il leader sindacale, «abbiamo proclamato solo lo stato di agitazione».

A meno di investimenti massicci sul comparto, però, lo scontro è inevitabile con lo sciopero. Si punta a capire almeno l’impostazione della prossima manovra, sebbene il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, abbia fatto capire che non è tempo di grosse spese. Il quadro non è dei migliori. Una parziale consolazione è che per il rinnovo del contratto ci sono stati degli incontri preliminari con l’Aran, l’eventuale soluzione è stata rinviata a settembre.

Si torna al punto di partenza, come un grande gioco dell’oca, alla necessità di immettere nuovo personale in organico. I numeri aiutano a capire il quadro. Sono 412.358 gli infermieri in attività in Italia, secondo i dati del ministero della Salute riferiti all’anno 2023-2024. Di questi 412.358, 13.394 sono over 65 e svolgono dunque servizio pur avendo ormai superato l’età pensionabile.

Un elemento non sfugge: chi dovrebbe andare in pensione non lo fa e addirittura svolge ancora attività assistenziale, seppur a volte, in via saltuaria. «La carenza attuale di infermieri in Italia è almeno di 65mila unità. Ma la situazione è destinata ad aggravarsi proprio con l’uscita dal mondo del lavoro dei prossimi pensionati», spiega a Domani la Federazione nazionale gli ordini delle professioni infermieristiche (Fnopi).

Un esempio? «Dal 2023 al 2033 si prevedono circa 113mila pensionamenti a cui sicuramente si aggiungeranno uscite per altri motivi che oggi non possiamo quantificare, ma che aggraveranno il dato». C’è poi il divario territoriale.

«La carenza pesa per circa il 45 per cento al Nord, per il 20 per cento al Centro e per il 35 per cento al Sud. Ma è anche vero che le regioni in cui tale carenza è maggiore sono quelle caratterizzate negli anni dai piani di rientro, dove il blocco delle assunzioni ha impedito qualsiasi tipo di rinforzo e ricambio di organici», spiegano ancora dalla Fnopi. La Campania è la regione messa peggio: servirebbero 11.733 infermieri mentre in Sicilia 10.725, segue la Lombardia con un buco pari a 7.942 infermieri. Mal comune, in questo caso, non è mezzo gaudio.

Pensioni e dimissioni

Bottega di Nursind mette in evidenza l’aspetto politico, quindi gli scarsi investimenti: «Il governo non sta attuando alcuna strategia di fronte alla drammatica carenza di infermieri. Non sarà possibile garantire gli attuali servizi». Cosa ci aspetta nell’immediato futuro? «Ci saranno più uscite per la pensione che nuovi laureati. La professione è sempre meno attrattiva per i giovani che fanno altre scelte per gli studi universitari».

Nemmeno la narrazione del lavoro da infermiere come approdo sicuro nel mondo del lavoro non funziona più. Anzi, evidenzia il segretario del Nursind, «arriviamo sempre più spesso il fenomeno delle dimissioni precoci».

L’esempio arriva dalla storia di Marta (nome di fantasia), che ha deciso di andare in pensione con tre anni di anticipo. «Ho lavorato per 42 anni all’ospedale dell’Annunziata di Cosenza – racconta a Domani – e lo scorso primo luglio sono andata via, in pensione a 64 anni e anticipatamente perché non potevo più farcela. Impensabile restare ancora in condizioni disumane, senza personale, svolgendo turni raddoppiati per coprire i buchi. Ho sempre amato la mia professione. È una missione, un servizio, ma sono arrabbiata per le mancate tutele», conclude Marta.

Perché quella dell’infermiera resta una professione poco valorizzata, e non solo per gli stipendi. Sul provvedimento per accorciare le liste di attesa erano state avanzate delle proposte della categoria: non sono state accolte. Tra le tante il riconoscimento di lavoro «usurante» ai fini dell’età pensionistica.

Altra nota dolente è la formazione, pressoché assente. «L’aggiornamento professionale è, nella maggior parte dei casi, a carico personale, sia da un punto di vista economico che di tempo», dice a Domani Maria De Stefano, responsabile formazione della Cgil di Salerno. Si finisce quindi che «le ore dedicate all’aggiornamento obbligatorio sono fuori orari di lavoro, cioè nel tempo libero», aggiunge De Stefano.

A chiudere il cerchio, lo scarso supporto alla sanità territoriale. Lo sviluppo della figura dell’infermiere di comunità resta un miraggio. Ecco che allora bisogna provare a trattenere le persone vicine alla pensione o già con i requisiti maturati. Un esempio arriva dal territorio.

«Le professioni infermieristiche non sono considerate professioni usuranti. Un vero e proprio paradosso», dice Sposato, presidente dell’Opi di Cosenza. In Calabria, nella regione in cui la sanità è commissariata da oltre un decennio, i dati sono impietosi. «Se in Europa – insiste – il rapporto infermiere-paziente è di 1 a 6 e in Italia di 1 a 12, in Calabria è di 1 a 18. Tutto ciò aumenta la probabilità di morte del paziente del 10 per cento e dà vita a molte altre criticità: può un infermiere scegliere a chi prestare le cure?».

Dietro tutto si staglia un orizzonte con nubi minacciose, osserva Sposato: «L’autonomia differenziata acuirà le problematiche. Già ora, d’altronde, i nostri infermieri stanno scappando verso la sanità privata». Invece da palazzo Chigi al ministero della Salute si preferisce la propaganda.

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