Tracciare un bilancio del ruolo che Silvio Berlusconi ha esercitato nelle vicende della destra italiana non è un compito così semplice come potrebbe apparire a prima vista. Per molti di coloro che si sono cimentati in questo compito, la sua funzione essenziale si può ridurre all’insolito aggettivo “sdoganatore”, che richiama le conseguenze dell’esternazione a favore della candidatura di Gianfranco Fini a sindaco di Roma, nel dicembre 1993, con cui si aprì un fulmineo processo di riammissione nell’area della legittimità governativa di un partito che, per le sue connotazioni neofasciste, ne era stato escluso sin dalla nascita.

E non c’è dubbio che l’apertura al Msi, compiuta all’unico scopo di non lasciare da parte nemmeno uno dei voti necessari a sbarrare la strada al successo del fronte progressista nelle successive elezioni legislative – le prime svolte con un sistema prevalentemente maggioritario, che obbligava a costituire coalizioni quanto più larghe possibile –, è stato uno degli aspetti salienti dell’azione politica berlusconiana. Che è ben lungi, però, dall’esaurire l’inventario dell’eredità, controversa e ingombrante, che il cavaliere ha lasciato al campo su cui non ha mai smesso di cercare di esercitare la sua egemonia.

Superare il tabù

A Berlusconi la destra italiana infatti deve, prima di tutto, la rivelazione della propria esistenza – e consistenza – all’opinione pubblica di un paese che era stato abituato, dal 1948, a considerarsi politicamente diviso esclusivamente in sinistra e centro, pilastri del “bipolarismo imperfetto” descritto da Giorgio Galli.

Fino al suo ingresso sulla scena, alla parola destra si accompagnava, nel senso comune, un’immagine di obsolescenza e marginalità, che tutt’al più rimandava alla stagione dei Cavour, dei Bettino Ricasoli e dei Quintino Sella, oppure evocava la nostalgia per pagine ormai chiuse della storia nazionale, come la monarchia e il fascismo.

L’effetto respingente del vocabolo era così temuto che non solo la Democrazia cristiana evitava di farne uso, ma persino i liberali se ne tenevano a debita distanza, rifiutando ogni connubio con monarchici e missini, unici ospiti di quello sgradito ghetto. Grazie a quel tabù, la Dc aveva potuto incassare ad ogni tornata elettorale i dividendi della paura del comunismo diffusa in larghi strati della popolazione senza scalfire la propria immagine di “forza di centro che guarda a sinistra”, per dirla con il lessico inaugurato da Alcide De Gasperi.

Quello status quo, che neppure il terrorismo brigatista e il compromesso storico avevano scalzato, subì però l’improvviso scossone di Tangentopoli, che fece della forzata esclusione del Msi dai benefici del sottogoverno una patente di estraneità ai circuiti della corruzione e consentì al partito della Fiamma di eleggere sindaci in molti comuni e contendere il successo al cartello progressista in metropoli come Napoli e Roma.

Il patron di Fininvest e Publitalia fu lesto a capire come stavano mettendosi le cose. Dc e Psi, verso cui si erano in precedenza indirizzati i suoi favori di moderato angustiato dal “pericolo rosso”, erano ormai avviati sul viale del tramonto e per battere le sinistre occorreva abbattere lo steccato dell’arco costituzionale e fare dei neofascisti dei partecipanti a pieno titolo al gioco del potere.

Palazzo Grazioli, conferenza stampa del centrodestra al termine del primo vertice post-elettorale nel 2008. Nella foto: Umberto Bossi, Silvio Berlusconi, Raffaele Lombardo e Gianfranco Fini (Marco Merlini / LaPresse)

Partner indocili

La mossa aveva un mero carattere tattico e opportunistico, ma gettava le basi di un bipolarismo di nuovo conio, che metteva ai margini del sistema quel centro che lo aveva sino ad allora dominato. Il puzzle si poteva comporre solo sottraendo all’ex Dc l’ala conservatrice e addomesticando la Lega di Umberto Bossi, che con “i fascisti” non era mai tenero.

L’espediente della coalizione a due facce – con i missini al sud e con i leghisti al nord – riuscì, almeno all’inizio, nell’azzardata scommessa, anche se la rapida defezione della componente padana obbligò per alcuni anni Berlusconi a uscire dai panni del mediatore fra alleati che si guardavano in cagnesco e, pur rafforzando la sua figura di padre-padrone della coalizione, gli impose una convivenza non sempre facile con partner indocili e, soprattutto nel caso di Fini, ambiziosi e desiderosi di succedergli nel ruolo di leader. Come le cose siano andate su questo versante, è cosa nota.

Apertura campagna elettorale del Polo. Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini, nel 2000 a Roma (Foto LaPresse)

La seduzione

Lo spostamento a destra del Polo delle libertà e dei suoi succedanei non fu subìto passivamente da Berlusconi, come molti suoi avversari hanno sostenuto. Vero è che all’inizio la sua posizione non era abbastanza forte da consentirgli di imporre al Msi quella profonda revisione ideologica che gli avrebbe fatto comodo per guadagnare credito a livello internazionale e sbiadire quell’immagine di cavaliere nero che i media ostili si affrettarono a proiettare.

Tuttavia, il repentino traghettamento nell’area di governo spinse gli alleati a un sia pur improvvisato e parziale maquillage, con tanto di cambio di nome, destinato a rafforzare progressivamente un processo di accettazione dei principi democratici che peraltro da tempo aveva messo radici nel ceto parlamentare missino. E negli anni successivi Berlusconi, che già nel 1976 aveva finanziato la scissione di Democrazia nazionale con cento milioni di lire (poi recuperati), tentò in più modi di suscitare una conversione moderata dei talvolta imbarazzanti compagni di viaggio.

Ci provò in ambito culturale, lanciando una rivista (Ideazione) diretta proprio da un ex missino, Domenico Mennitti, e inviando in missione in un convegno organizzato in comune la pattuglia dei “professori di Forza Italia”, Lucio Colletti e Saverio Vertone in testa, ma senza successo. Ritentò con una provocazione di taglio più politico, distribuendo a migliaia di partecipanti a un’assemblea organizzativa di Alleanza nazionale Il libro nero del comunismo appena sfornato dalla “sua” Mondadori, per sbarrare la strada al tentativo di Fini di entrare in dialogo diretto con Massimo D’Alema sulle questioni della riforma istituzionale.

E continuò a farlo con un lavorio costante di attrazione e seduzione di singoli esponenti del partito alleato e rivale, finalizzato ad aprire la strada alla fagocitazione di An nel Popolo delle libertà: trappola in cui Fini non avrebbe voluto cadere, ma che i suoi “colonnelli” finirono per fargli digerire sotto la velata minaccia di passare dalla parte dell’uomo di Arcore.

Il 16 novembre 2011 a Palazzo Chigi, nella cerimonia della campanella, l'allora presidente del Consiglio Mario Monti e l'ex presidente Silvio Berlusconi (Foto: Agf)

L’addomesticatore

Chi accusa Berlusconi di avere, con l’apertura al Msi, delegittimato i fondamenti antifascisti della Repubblica e aperto la strada ad una “banalizzazione” dell’esperienza mussoliniana funzionale a una sua successiva e surrettizia rivalutazione, sottovaluta questo lato della vicenda, che per oltre 15 anni ha portato alla compressione degli umori ribellistici e anti-sistemici da sempre presenti nella base missina.

Una destra abituata ai toni tribunizi di Giorgio Almirante, nel momento della massima popolarità del pool Mani pulite, si era spinta ad assediare simbolicamente il parlamento plaudendo all’opera igienica dei magistrati milanesi, e rischiava di fare da coagulo dei sentimenti di vendetta anti-casta dilaganti nella società civile.

A loro l’imprenditore milanese che amava dichiararsi “prestato alla politica” impose il linguaggio assai meno drammatico di un populismo qualunquista, fatto di ammiccamenti ai pregi e ai vizi dell’uomo della strada, di difesa della routine piccolo-borghese dall’insicurezza e dall’invidia dei comunisti e non certo dei sogni di un assalto al quartier generale dell’intellighenzia di sinistra che qualche impaziente seguace del “gramscismo di destra” si ostinava a coltivare.

LAPRESSE

Oltre, e forse più, che come sdoganatore e catalizzatore, Silvio Berlusconi andrebbe dunque forse considerato come l’addomesticatore di un’area politica che, anche per suo merito o colpa, non si è mai potuta dare, fino a quando la sua figura ne ha dominato la scena, un’identità in positivo, un profilo ideologico-culturale coerente, un progetto che andasse oltre il rifiuto di ciò che, di volta in volta, la sinistra proponeva.

Non è un caso che solo quando la fulminea ascesa dello spread e la defezione finiana lo hanno obbligato a cedere il timone del governo a Mario Monti, destinandolo al declino, alcuni dei tratti dell’identità profonda della destra italiana che la sua leadership aveva offuscato, se non addirittura neutralizzato, siano ritornati a galla, sia pure in modo frammentario e con gli adeguamenti che il contesto dell’epoca impone, fino al nuovo governo guidato da Giorgia Meloni .

È un evidente indizio che per la destra l’ora del dopo-Berlusconi è definitivamente suonata.

Consultazione al Quirinale, nel 2018 (Foto LaPresse)

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