Il rischio di assuefarsi alla guerra, la «mentalità di pace» che non è «astratto buonismo ma realismo», la lotta alla violenza contro le donne, con un messaggio ai giovani, «con parole semplici» su cosa è l’amore.

Poco più di sedici minuti, una scenografia semplice, c’è solo il grande albero di Natale nell’inquadratura scelta nella Sala dei Tofanelli, accanto allo studio alla Vetrata, al piano terra della palazzina Gregoriana, l’ala più antica del Quirinale. Nessuno sfarzo, niente lucine intermittenti, non c’è nulla che sfavilli, è un Natale con due guerre molto prossime.

Sergio Mattarella anche quest’anno sceglie di stare in piedi (stavolta anzi muove qualche passo in avanti verso le «care cittadine e cari cittadini» a cui si rivolge) per pronunciare il suo nono messaggio di fine anno da capo dello Stato. Il presidente affronta i problemi dal punto di vista generale, ma sarebbe un errore sostenere che si tiene alla larga  dell’attualità. Basta ascoltarlo bene.

Certo, non fa riferimenti diretti alla politica di casa nostra, e tantomeno alla riforma costituzionale che punta a diminuire i poteri del Colle, come ammesso dal presidente del senato Ignazio La Russa (che poi ha tentato una puntualizzazione che poco poteva aggiustare rispetto alle parole dette).

Ma nel finale del suo discorso si sente la preoccupazione nell’invito a smussare i toni delle polemiche. E l’appello a tutta la comunità del paese di restare unita non ha bisogno di interpretazioni: non si tratta dell’invito a uniformare le opinioni, ma un avviso del pericolo di regressione che corre una società diseguale e divisa.

E un invito a praticare i valori costituzionali, «valori fondanti della nostra civiltà: solidarietà, libertà, uguaglianza, giustizia, pace». È questa e non quella sovranista, la definizione di «identità nazionale» per Mattarella. Ed è l’«orgoglio» per questi valori, quello di cui parla il presidente: sembra – sembra, nessuna interpretazione di questo genere viene autorizzata dal Colle, anzi – l’esatto contrario dell’«orgoglio» patriottardo degli auguri di Natale della presidente del Consiglio. 

Le guerre e la pace

La guerra e la violenza sono il filo conduttore della prima parte del ragionamento. E forse non solo per questo il presidente sorveglia un tono che però non può non lasciare trasparire la preoccupazione. Parla delle guerre «in corso»: cita le devastazione della Russia contro l’Ucraina e l’«orribile e ignobile» attacco di Hamas contro i civili israeliani e – accanto –  le migliaia di vittime civili della reazione del governo israeliano e le «moltitudini di persone» di Gaza costrette «ad abbandonare le proprie case, respinte da tutti».

Parla anche delle guerre «evocate e minacciate» – è di queste ore la minaccia della Cina a Taiwan e della Corea del Nord contro quella del Sud – . La guerra «è frutto del rifiuto di riconoscersi tra persone e popoli come uguali» per affermare «un principio di diseguaglianza», le «macerie non solo fisiche» pesano «sul nostro presente e graveranno su futuro della nuova generazione».

Mattarella fa riferimento al mercato delle armi, così diffuse e «fonte di enormi guadagni», eppure, per il presidente, la guerra nasce dalla sopraffazione: «È indispensabile fare spazio alla cultura della pace, alla mentalità della pace», «non astratto buonismo, ma il più urgente e concreto esercizio di realismo se si vuol cercare una via d’uscita a una crisi che può essere devastante per il futuro dell’umanità».

Le guerre devono essere «un’eccezione e non la normalità del futuro», dice. Ma non è diventato «pacifista» nell’accezione dei movimenti disarmisti: anzi, sottolinea, «per porre fine alle guerre in corso non basta invocare la pace», serve «la  volontà dei governi, anzitutto quelli che hanno scatenato i conflitti» perché «volere la pace non è neutralità». La cultura di pace va coltivata «nei gesti della vita di ogni giorno, nel linguaggio che si adopera».

La violenza contro le donne e i diritti

Di qui Mattarella torna – lo ha fatto spesso in quest’ultimo anno – sulla violenza «più odiosa», quella contro le donne. Stavolta usa parole «semplici», dirette ai ragazzi, sull’amore «quello vero»:  che «non è egoismo, dominio, malinteso orgoglio», «è ben più che rispetto». 

La violenza è anche «espressione di rabbia, il risentimento che cresce nelle periferie» frutto «del sentimento di abbandono», e «la tendenza a identificare nemici», spesso «travolgendo il confine che separa il vero dal falso». Parole che si riferiscono ai fenomeni in rete, non solo italiani: ma anche qui è difficile non pensare alle dinamiche dello scontro fra maggioranza e opposizione. 

Un clima di scontro che rende più difficile affrontare i problemi concreti delle famiglie e dei cittadini: il lavoro «che manca, pur in presenza di un significativo aumento dell’occupazione», quello «sottopagato», quello «a condizioni inique e di scarsa sicurezza, con tante e inammissibili vittime»; le «immani differenze di retribuzione fra pochi super privilegiati e tanti che vivono nel disagio», il diritto universale alla salute minato da «liste di attesa per visite ed esami in tempi inaccettabilmente lunghi», la «sicurezza della convivenza che lo stato deve garantire, anche contro il rischio di diffusione delle armi».

Anche qui è difficile non farsi venire in mente l’ultima pensata di un senatore di Fdi, quella di consentire anche ai sedicenni di andare a caccia, quindi di portare legittimamente un’arma: proposta già ritirata dal governo, e comunque tentata dalla destra.

I giovani non sono quelli da armare, sono quelli che dovrebbero coltivare il futuro, e invece  «si sentono estranei a un mondo che non possono comprendere», «un disorientamento» che nasce da «un mondo che disconosce le loro attese», la citazione a mo di esempio è la questione ambientale. 

I diritti preesistono

«Quando la nostra Costituzione parla di diritti, usa il verbo “riconoscere”: significa che i diritti umani sono nati prima dello Stato ma anche che una democrazia si nutre prima di tutto della capacità di ascoltare». Il passaggio molto politico: «Occorre coraggio per ascoltare, e vedere situazioni finora ignorate», «realtà a volte difficili da accettare»: i fragili «rimasti isolati» nella società della «cultura dello scarto» – l’omaggio all’«instancabile magistero» di papa Francesco è esplicito – gli anziani, gli studenti «che vanno aiutati a realizzarsi, il cui diritto allo studio incontra ostacoli, a cominciare dai costi degli alloggi» nelle città universitarie «improponibili per la maggior parte delle famiglie», l’effettiva parità fra uomini e donne, i migranti.
Ed è alla voce diritti che il presidente torna sulla questione dell’Intelligenza artificiale, come aveva fatto già nel discorso alle alte cariche dello Stato:  «Ci troviamo nel mezzo di quello che verrà ricordato come il grande balzo storico dell’inizio del terzo millennio. Dobbiamo fare in modo che la rivoluzione che stiamo vivendo resti umana. Cioè, iscritta dentro quella tradizione di civiltà che vede, nella persona - e nella sua dignità - il pilastro irrinunziabile».

L’orgoglio per i valori costituzionali

Il finale è sui «valori»: la solidarietà, «la partecipazione attiva alla vita civile, a partire dall’esercizio del diritto di voto» che non è «rispondere a un sondaggio, o stare sui social», la democrazia che è «esercizio di libertà», libertà «che, quanti esercitano pubbliche funzioni sono chiamati a garantire», libertà «da abusivi controlli di chi, gestori di intelligenza artificiale o di potere, possa pretendere di orientare il pubblico sentimento».

Libertà che è un «diritto di partecipare alla vita della comunità» prima che «un dovere», «anche un diritto al futuro». Il presidente torna per l’ennesima volta sull’evasione che «riduce le risorse per la comune sicurezza sociale. E ritarda la rimozione del debito pubblico; che ostacola il nostro sviluppo».

E invece «contribuire alla vita e al progresso della Repubblica, della Patria, non può che suscitare orgoglio negli italiani». Mattarella usa lo stesso termine usato dalla premier Meloni nel suo video di auguri natalizi («Siano feste di serenità e orgoglio»), una delle poche che sappiamo di lei in questi giorni di malattia e silenzio.

Ma ne sostanzia il significato, ribaltando la retorica sovranista e divisiva: «La forza della Repubblica è la sua unità», dice Mattarella, «L’unità non come risultato di un potere che si impone» ma come modo «di intendere la comunità nazionale», «un atteggiamento che accomuna; perché si riconosce nei valori fondanti della nostra civiltà: solidarietà, libertà, uguaglianza, giustizia, pace». In nome della Costituzione.

Il finale sono esempi di pratica dei valori costituzionali «che appartengono all’identità stessa dell’Italia». Ed anche qui il presidente usa un termine caro alla destra, l’«identità», ma lo sostanzia con la pratica dei valori: «Li ho incontrati nella composta pietà della gente di Cutro», «nella operosa solidarietà dei ragazzi di tutta Italia che, sui luoghi devastati dall’alluvione, spalavano il fango; e cantavano ‘Romagna mia’», «negli occhi e nei sorrisi, dei ragazzi con autismo che lavorano con entusiasmo a Pizza aut», «di quelli che lo fanno a Casal di Principe, laddove i beni confiscati alla camorra sono diventati strumenti di riscatto civile (...) tenendo viva la lezione di legalità di don Diana», «nel radunarsi spontaneo di tante ragazze, dopo i terribili episodi di brutalità sulle donne. Con l’intento di dire basta alla violenza»: parla della marea di Nonunadimeno, e così chiude le tante polemiche della destra su quelle manifestazioni. 

E poi nell’impegno di «donne e uomini in divisa», nelle persone «che, lontano dai riflettori della notorietà, lavorano per dare speranza e dignità a chi è in carcere», «chi ha lasciato il proprio lavoro per dedicarsi a bambini, ragazzi e mamme in gravi difficoltà», «le loro storie raccontano già il nostro futuro» «ci dicono che uniti siamo forti». 

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