Con «forzature» che il Pd e le altre opposizioni hanno definito «inaccettabili» e «strappi istituzionali», sabato scorso la commissione Affari Costituzionali di Montecitorio ha votato il ddl Calderoli sull’autonomia differenziata. Che questo lunedì arriva in aula. Anche se il sì finale alla legge arriverà più avanti. Per ora conta «il gesto simbolico», secondo Gianfranco Viesti, professore di Economia all’università di Bari e autore del saggio Contro la secessione dei ricchi (Laterza), un gesto frutto di «un accordo politico fra Fdi e la Lega per consentire alla Lega di rivendicare la legge in campagna elettorale».

Dopo il sì definitivo alla legge, che succede in concreto?

Niente. La legge è inutile per le procedure giuridiche, è solo un’intesa politica nella maggioranza. Adesso il pallino è nelle mani della presidente del consiglio che può avviare o concludere le intese con le singole regioni. Il succo della storia sono le intese.

Qual è la procedura?

Non sappiamo niente. È possibile che la trattativa fra i ministeri e due regioni – Veneto e Lombardia – siano già in corso, ne abbiamo tracce in qualche documento del dipartimento degli Affari regionali del ministro Calderoli. Ma non sappiamo che posizioni stanno prendendo i ministeri, che cosa pensano sia opportuno concedere o no. Si sta discutendo del futuro degli assetti di comando in Italia senza che nessuno ne sappia assolutamente niente.

Prima però si dovranno identificare e finanziare i Lep, i livelli essenziali delle prestazioni.

Il tema dei Lep è una cortina di fumo della maggioranza nei confronti dell’elettorato. Attualmente la palla è in mano ai tecnici di fiducia di Calderoli che devono tradurre in numeri la ricognizione fatta dal comitato Cassese. Ma dato che non c’è nessun finanziamento aggiuntivo, quello che tutti pensano, a cominciare dall’Ufficio parlamentare di bilancio, è che questi livelli coincideranno con le prestazioni già fornite.

I Lep devono essere finanziati?

Non necessariamente. Dipende dai livelli a cui sono fissati e dalla circostanza che ci sia carenza di risorse in alcuni territori. E dipende dalle materie. Intanto però l’accordo politico consente di andare avanti con le intese sia nelle materie che non prevedono i Lep, sia in funzioni “non Lep” delle materie Lep. Fra le “non Lep” ci sono materie interessanti come la protezione civile, e il coordinamento della finanza regionale e locale che potrebbe dare un grande potere alle regioni. E materie più simboliche come i rapporti con l’Ue, o quelli internazionali delle Regioni. Poi ci sono le professioni. Uno degli aspetti oscuri è che nessuna Regione ha mai detto perché vuole questi poteri e che vuole farne: quando il Veneto avrà competenza esclusiva per le professioni, che cosa ne farà? Definirà alcune professioni venete con requisiti diversi da quelli italiani?

Inizia la secessione dei ricchi?

Sì, si avvia il processo. Comporta sia la trattativa e l’eventuale concessione di un primo pacchetto di competenze, sia la creazione di commissioni paritetiche Stato-Regioni, che poi decideranno concretamente il trasferimento non solo finanziario, ma anche di strutture e personale dallo Stato alle Regioni. La maggioranza ha inserito una clausola per cui l’autonomia può essere concessa dopo aver analizzato le situazione finanziaria delle Regioni. È un termine che non significa niente, non è quantificato, ma potrebbe essere una barriera insormontabile per la concessione di maggiore autonomia alle regioni del Sud.

Allora perché i governatori di destra del Sud hanno subito detto sì?

Immagino per disciplina di partito, perché la loro sopravvivenza politica dipende dalle scelte della presidente del consiglio. Ma c’è una novità interessante: il consiglio regionale della Calabria ha approvato un documento in cui chiede un’istruttoria preventiva su ogni materia da concedere, in modo da capire cosa implica: una richiesta di buon senso, più volte formulata dalla Banca d’Italia, che può aprire una crepa nella maggioranza. Il presidente della Calabria è di Forza Italia, che è la forza della maggioranza più tiepida sull’autonomia.

Ma questa legge non è una contraddizione per FdI, che propugna la bandiera dell’unità nazionale?

Sì. Evidentemente il collante che tiene insieme la maggioranza è più forte degli indirizzi ideali.

Che può succedere alla sanità autonoma regionale?

Le Regioni potrebbero chiedere di avviare il decentramento di poteri sugli aspetti “non Lep” della sanità. La cosa è tecnicamente intricata, ma politicamente chiara: la commissione Cassese ha stabilito che i livelli di prestazione della sanità sono già definiti, ma la richiesta delle Regioni è di avere pieni poteri per strutturare il servizio sanitario come credono, strutture e personale. Veneto e Lombardia potrebbero chiederlo subito: sarebbe la fine del servizio sanitario nazionale, perché le norme organizzative e l’indirizzo politico dei sistemi regionali di Veneto e Lombardia sarebbero indipendenti da quelli delle altre Regioni.

Le regioni ricche ci guadagnano?

Ci guadagnano i presidenti di Regione e le classi dirigenti regionali perché assommano poteri che vanno verso quelli di un vero e proprio capo di Stato. I sindaci delle regioni a maggiore autonomia non ci guadagnano, e la posizione dell’Anci, unanime, molto preoccupata, testimonia che è chiaro anche ai sindaci leghisti del Nord. Quanto ai cittadini, è molto dubbio che ci possano guadagnare: sarebbero soggetti passivi di decisioni della giunta regionale indipendentemente da norme nazionali di equilibrio. Sicuramente ci perdono i lavoratori di quei settori che perderebbero la copertura del contratto nazionale.

Qualche regione può alzare gli stipendi, ad esempio agli infermieri?

Potrebbero, perché c’è carenza, ma poi l’assetto giuridico e regolamentare della professione finirebbe nelle mani del presidente della giunta.

Il sistema Italia cosa guadagna rispetto, per esempio, all’Europa?

Niente. È evidente a tutti. L’Italia ci perde perché diventa un sistema più farraginoso e con un governo nazionale meno in grado di governare l’economia. È chiaro sia dai documenti della Banca d’Italia che da quelli dell’Anci che un passaggio di competenze così esteso e diversificato può produrre una diminuzione dell'efficienza dei servizi pubblici del Paese.

La riforma del Titolo V della Costituzione, voluta dal centrosinistra, ha aperto la porta allo Spacca-Italia?

Sì, in due momenti chiave: il primo quando ha inserito il regionalismo differenziato nella riforma del Titolo V, che pure aveva aspetti interessanti, ma ha questo tarlo interno. Il secondo momento è stato fra l’ottobre 2017 e il febbraio 2018 quando, anziché opporsi alle richieste di Lombardia e Veneto, le ha affiancate, come l'Emilia-Romagna, e le ha portate alla sigla di una pre-intesa con il governo Gentiloni: ha aperto un’autostrada a richieste che il buonsenso avrebbe consigliato di rinviare al mittente perché palesemente contrarie ai principi costituzionali negli aspetti finanziari.

I cittadini del Sud possono davvero essere considerati «passivi», come scrive lo scrittore Maurizio Di Giovanni?

La stragrande maggioranza dei cittadini italiani non sa cosa sta succedendo. Quelli del Sud delle regioni continentali, man mano che sono informati, stanno prendendo coscienza. Ma se c’è una passività, lo dico con franchezza, è quella degli intellettuali e dei politici del Nord, che da sei anni sono in larga misura silenti: tendono a legittimare l’idea che questo cambiamento fa male al Sud ma bene al Nord. Sono loro che dovrebbero prendere la parola, non dovremmo essere noi ad andare a parlarne. Sono gli intellettuali di Milano, di Torino e di Bologna, sulla base dei principi della Costituzione, a dover fare questa battaglia a casa loro.

Invece l’idea che passa è che il Nord ci guadagna.

Ma è una visione del tutto impolitica: non si tratta di una questione meramente territoriale, è una grande questione politica. Su due aspetti: chi comanda in Italia e quanto uguali sono i cittadini italiani. Due questioni che non hanno differenza di latitudine.

L’opposizione parlamentare poteva fare di più?

No, l’opposizione parlamentare ha fatto un gran lavoro sia al Senato che alla Camera, ha cercato di modificare la legge e ritardarne l’approvazione. Discutibile è invece quello che succede fuori dalle aule. C’è dello strabismo: i principali partiti d’opposizione cavalcano questo tema al Sud come elemento di campagna elettorale, il che fa piacere. Ma sono timide nel resto del Paese. Ed è pericoloso, perché rischia di trasformare la questione in una questione del “meno a me più a te”. Invece attiene ai principi fondanti della Repubblica.

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