Assillo della precarietà, tempo sottratto alla vita e alla socialità, frustrazione quotidiana. Queste sono solo alcune delle prerogative negative spesso associate al lavoro, che vanno a toccare corde ben più profonde della semplice insoddisfazione retributiva, che pure esiste.

Nel loro saggio Il buon lavoro (Luiss University Press, 2023), Stefano Cuzzilla (presidente di Federmanager, Cida e Trenitalia ed esperto di politica industriale) e Manuela Perrone (giornalista del Sole 24 Ore e viceresponsabile di Alley Oop) hanno analizzato e messo a fuoco quali prerogative sono necessarie affinchè il lavoro sia qualcosa di più di una semplice utilità marginale tra chi lo chiede e chi lo offre.

La risposta è complessa e non si esaurisce nella semplice fissazione di obiettivi che non siano solo economici o di posizionamento sociale, ma puntino a conciliare il lavoro con le esigenze e le aspirazioni personali.

Il mondo che cambia

La premessa da cui partono gli autori è che il lavoro è inevitabilmente cambiato rispetto al paradigma fordista del Novecento, ma anche rispetto a ciò che era per la generazione che è entrata nel mondo del lavoro nei primi anni Duemila.

L’evoluzione negli ultimi anni è stata molto rapida ed è stata influenzata da fattori esterni come il Covid, che ha determinato il fenomeno finito sotto l’etichetta di “Grandi dimissioni”, e come i progressi inarrestabili del digitale e dell’IA, che hanno fatto così che professioni e relative competenze siano nate e morte

Anche fattori interni legati al contesto di vita e alla società hanno a loro volta un peso: l’ambizione personale e un cambiamento della percezione del ruolo del lavoro rispetto alla vita, che hanno prodotto fenomeni come quello del quiet quitting (fare il minimo indispensabile per non incorrere in provvedimenti disciplinari) e del job hopping (saltare da un posto all’altro)

In termini numerici, secondo il report 2023 sul futuro del lavoro del World Economic Forum, la stima è che nei prossimi cinque anni il 44 per cento dei lavoratori dovrà cambiare le sue competenze e che sei su dieci richiederanno una formazione prima del 2027, ma oggi solo la metà ha accesso ad adeguate opportunità formative.

In altri termini, il problema del futuro non sarà più quello di proteggere i posti di lavoro ma le persone, visto che la prospettiva è quella di avere “miliardi di individui che dovranno reinventare sè stessi senza perdere il loro equilibrio mentale”, scrive Yuval Noha Harari, una delle voci più importanti nel settore dell’intelligenza artificiale.

Se questo è l’orizzonte, è necessario mettere a fuoco che non esiste una risposta adatta a tutti. Secondo gli autori, la generazione Zeta (che comprende i nati tra il 1996 e il 20210) «più delle altre incarna l’avanguardia del cambiamento» perchè è nativa digitale, perennemente connessa, abituata agli algoritmi che selezionano le preferenze, e sta «riscrivendo la grammatica del rapporto con il lavoro, esprimendo preferenze e aspettative che gli esperti di risorse umane fanno fatica a decifrare».

Per fare un solo esempio, per i giovani che oggi si affacciano al mercato del lavoro, il lavoro ibrido, la formazione e gli orari sono fattori ritenuti più fondamentali anche della retribuzione, ma vengono invece interpretati come pretese incomprensibili e ingiustificate dalle generazioni precedenti.

«Un decennio e una pandemia dopo, il disgusto per la cultura dell’affanno sembra aver preso il sopravvento, facendo abbassare drasticamente le aspettative legate all’autorealizzazione sul lavoro, se non innescando vere e proprie forme di protesta anti-lavoro», scrivono Cuzzilla e Perrone. Secondo una indagine di Deloitte condotta in 44 paesi, infatti, il 77 per cento della generazione Z cercherebbe un nuovo lavoro se non avesse l’opzione del lavoro da remoto.

Eppure, questi fattori sono oggetto di interpretazione molto diversa non solo da paese a paese, ma anche e soprattutto da azienda ad azienda. A seconda delle dimensioni, della composizione e dell’età media alcune esigenze – come l’inclusività in azienda, la premialità e valorizzazione dei singoli e il welfare aziendale – sono più o meno sentite.

Il caso dell’Italia è emblematico: nel nostro paese composto da un tessuto caratterizzato da piccole e medie imprese, le cosiddette policy D&I (diversity and inclusion) non sono ancora state elaborate in un piano strutturato dal 63 per cento delle aziende e il 20 per cento non progetti nemmeno di farlo.

Un ulteriore elemento da considerare, quando si parla di lavoro, è anche la prospettiva di ricambio: secondo le simulazioni Istat, il rapporto tra individui in eltà lavorativa e non passerà da circa tre a due nel 2021 a circa uno a uno nel 2050. Per questo si imporrebbero interventi drastici, che tuttavia vanno calibrati non solo sul mercato del lavoro, ma su come numeri di questo genere impattano sulla società e sulle strutture familiari e sulle disparità che rischiano di provocarsi.

Le voci

Dopo aver analizzato il “come” e il “quanto” stia cambiando il lavoro, la seconda parte del volume prova a rispondere al «perchè si cambia» attraverso numerose interviste a figure apicali in alcuni specifici settori professionali.

A prendere la parola per descrivere i profili più innovativi ma anche quali siano le necessità di evoluzione sono manager delle principali società italiane: Adriano Mureddu del Gruppo Ferrovie dello Stato ad Antonio Liotti di Leonardo e Paola Borromei già in Snam, oggi Gruppo 24ore, sono solo alcuni dei nomi degli intervistati.

Ognuno di loro ha messo a fuoco una questione – dal nuovo lavoro ibrido al benessere aziendale, dalla nuova leadership ai nuovi paradigmi qualitativi che fanno incontrare domanda e offerta – con l’obiettivo di fornire suggerimenti pratici ma anche visioni di lungo periodo, rispondendo al quesito: cosa rende oggi un lavoro “un buon lavoro”. 

Al netto delle singole peculiarità, la sintesi è unanime: il buon lavoro è quello «sostenibile», che garantisce la realizzazione ma riconosce le esigenze e permette di tessere relazioni, che offre a chi lo svolge il senso di contribuire a qualcosa di più grande, che abbia un impatto.

«Ridare senso al lavoro è la sfida della nostra epoca», è la conclusione degli autori, che hanno puntato a offrire un contributo di idee che mettano in relazione le statistiche con l’esperienza pratica, le buone prassi con i problemi da risolvere.

Con un punto fermo: «schemi desueti e antiche abitudini canno riviste» e un’urgenza: rimettere «le persone al centro», perchè i lavoratori sono la vera forza delle imprese e della pubblica amministrazione anche nell’era dell’intelligenza artificiale.

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