La premier rivendica la decisione
sugli extraprofitti alle banche. Tutta in difesa, invece, su Pnrr, salario minimo e la finanziaria
Ha voluto mettere molti puntini sulle i, Giorgia Meloni. L’ultima fiammata prima della sospensione feriale, ma anche – dice chi la conosce – la volontà di avere l’ultima parola dopo l’ultimo consiglio dei ministri. E di ribadire il concetto che il governo lo comanda lei, che la regia è la sua.
Di qui la scelta, decisamente inusuale, di concedere tre interviste quasi fotocopia ai tre principali giornali italiani (Corriere della Sera, Stampa e Repubblica, quasi una dichiarazione scritta a reti unificate) il cui filo conduttore si può riassumere con “il governo sono io”.
Eppure, leggendole, le sue parole suonano come una difesa più che un attacco. Una rivendicazione sì, ma anche una giustificazione delle proprie scelte politiche e della rotta del governo, che inizia e finisce con lei.
Ad ascoltare i commenti degli alleati, proprio questo è stato interpretato come il senso dell’intervista, che ha rovinato più di qualche giornata al mare tra le file della Lega ma soprattutto di Forza Italia. «Non siamo i suoi soldatini», è stato tra i commenti più pacati, anche se l’ordine di scuderia è stato quello del silenzio, «gelido» però, davanti alle esternazioni della presidente del consiglio. Molto più che verso le opposizioni o l’opinione pubblica, le interviste sono suonate come un regolamento di conti muscolare tutto rivolto all’interno della maggioranza.
Il ruolo degli alleati
A generare il caso diplomatico interno alla maggioranza sono soprattutto i toni con cui la premier ha parlato degli azzurri e del suo vicepremier, Antonio Tajani. FI è stata il partito meno favorevole alla misura della tassa sugli extraprofitti delle banche, tanto che ne sarebbe stata informata praticamente a cose fatte. Un sospetto, questo, che si è trasformato in certezza proprio grazie alle parole di Meloni. «Tajani ha posto un problema di metodo, lo capisco», la detto a Repubblica, ma «ho coinvolto in misura minore la maggioranza perchè la questione non doveva girare troppo», quindi Meloni si è assunta la responsabilità di muoversi in autonomia, «ad Antonio lo ho spiegato». Chissà però se Tajani è stato comprensivo.
Di certo la lettura di questo passaggio è stata interpretata da fonti di maggioranza come una sorta di declassamento di FI e il tono liquidatorio nei confronti di quello che rimane uno dei suoi due vicepremier non gioverà alla credibilità del ministro degli Esteri, in corsa per la segreteria del suo partito a febbraio.
Se tra gli azzurri le facce sono scure, nemmeno dentro la Lega si sorride. La tassa sugli extraprofitti era stata rivendicata dall’altro vicepremier, Matteo Salvini, come un’iniziativa quasi propria della Lega. Se già nei primi giorni da palazzo Chigi era filtrato che invece la regia fosse della premier, ieri Meloni ha voluto ribadirlo senza mezzi termini. Altro che asse con la Lega, «è un’iniziativa che ho assunto io. Punto», ha detto. Ha confermato che il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ne era sì informato, perchè «è il ministro che doveva scrivere il provvedimento». Insomma nulla di un’iniziativa repentina, contestata ma elettoralmente e comunicativamente forte è dipesa dagli alleati, ma solo dall’estro della presidente del Consiglio.
Il salario minimo
Alle opposizioni, invece, Meloni ha quasi soffiato il ruolo. Tornando nei panni della leader di lotta più che istituzionale di vertice del governo, nel commentare il vertice di venerdì scorso sul salario minimo, ha accusato la minoranza parlamentare di «non voler risolvere la questione» ma di «fare politica» con la raccolta firme di Pd e M5S e di non aver immaginato dove trovare coperture per la sua introduzione. Poi ha accusato la Cgil di posizoni pregiudiziali nei confronti del suo governo, dopo la manifestazione indetta per settembre. «Il governo sta facendo il massimo, non si è risparmiato e qualche risultato arriva», si è difesa davanti al rischio di un autunno caldo nelle piazze a causa del calo dello 0,3 per cento del Pil e del taglio di misure a favore dei più poveri, come il reddito di cittadianza. Anche in questo caso più una difesa che un attacco, senza però la forza di numeri o di una strategia più definita per affrontare i problemi.
Sul salario minimo, il cui dibattito parlamentare è slittato a data da destinarsi, la linea di Meloni è stata «il mandato al Cnel per approfondire» e «poi vediamo cosa ne esce», tornando a ribadire che la sua misura simbolo sarà il taglio del cuneo fiscale. Con gli alleati già in subbuglio e contrari alla misura era difficile aggiungere di più. Tuttavia, dopo aver organizzato una riunione con le opposizioni e rivendicato in prima persona l’apertura affidare il paccetto al Cnel è almeno una brusca frenata.
Il Pnrr
Il passaggio più debole, però, riguarda il Pnrr e il definanziamento di 16 miliardi di progetti, da rifinanziare attraverso altri fondi europei. Da settimane le Regioni, con in testa i governatori del nord e soprattutto il presidente leghista Massimiliano Fedriga, chiedono rassicurazioni sul fatto che i soldi non spariranno e che i progetti possano andare avanti perchè già in via di realizzazione. La stessa richiesta di garanzie è arrivata anche dai comuni con l’Anci.
Eppure, Meloni ha liquidato la questione con una frase: «Non abbiamo tagliato niente, le opere saranno portate avanti», riducendo la portata delle preoccupazioni degli enti locali a «i progetti da mille euro sulle ringhiere sono incompatibili». Al netto del fatto che l’entità degli interventi, soprattutto per le città maggiori e le Regioni, è certamente maggiore, da Meloni non è arrivata nessuna spiegazione o garanzia, se non un generico «stiamo spostando alcuni fondi su altre voci del bilancio dello Stato».
Magra rassicurazione non solo per gli enti locali – solo 4 sono governate dal centrosinistra – ma anche per l’Unione europea che dovrà valutare la richiesta di definanziamento. In attesa di una manovra di bilancio che -dai pronostici della stessa Meloni – avrà poche risorse, la premier si è già arroccata in difesa.
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