Segnatevi queste due date. 20 settembre 1870 presa di Porta Pia. 30 maggio 2024, il rovescio di Porta Pia ad opera di Giorgia Meloni, giustappunto a Dritto e rovescio su Rete 4. Aiutano a spiegare il nervosismo della maggioranza sull’autonomia differenziata, da cui è venuta fuori l’aggressione alla Camera al Cinque stelle Lorenzo Donno, reo di aver porto al ministro Roberto Calderoli il tricolore che andrà in soffitta se passasse la sua legge.

Con la breccia di Porta Pia e l’annessione dello stato pontificio al nascente Regno d’Italia, cominciava la vicenda dello stato unitario, dell’Italia da «espressione geografica» (Metternich, 1847) a statualità nazionale unitaria con Roma capitale.

L’ultima resistenza a cadere fu quella della chiesa, rinchiusasi nelle mura del Vaticano fino ai Patti lateranensi, al concordato del1929 ad opera di Benito Mussolini che, ancorché a capo di un regime, doveva ammettere che la nazione cui prometteva i fasti della Roma imperiale restava cattolica e bisognava farci i conti. Qualche volta anche i dittatori ragionano.

Meloni vs Zuppi

Perché il 30 maggio 2024 nella microstoria politica di questi anni rappresenta simbolicamente il rovescio di Porta Pia? Perché è paradossalmente la chiesa, che lo aveva avversato per oltre un secolo, a dover prendere le difese dello stato unitario contro un ceto politico repubblicano pronto a “devolvere” forma e sostanza della sua unità.

A Dritto e rovescio, il 30 maggio, abbiamo assistito alla presidente Meloni che attaccava Matteo Zuppi, presidente dei vescovi italiani reo, con un documento della Cei, di esprimere preoccupazione per le riforme con cui questo governo traffica tra premierato e autonomia differenziata con l’unità formale (costituzionale) e sostanziale (i valori di eguaglianza solidale da garantire ai suoi cittadini) del paese.

Meloni ha dichiarato di non capire esattamente cosa preoccupasse la Cei «visto che la riforma del premierato non interviene nei rapporti tra stato e chiesa», aggiungendo che non le sembrava che il Vaticano fosse una repubblica parlamentare, e che «nessuno ha mai detto che si preoccupava per questo. E quindi facciamo che nessuno si preoccupa».

In sostanza, cari vescovi state zitti. Al vostro gregge ci pensiamo noi, voi limitatevi ai conforti spirituali, che ne hanno bisogno (questo è vero, obiettivamente) e quello che voglio fare è nell’interesse anche dell’opposizione. Riferite in Vaticano, oppure chiedo al Vaticano di riferire a voi, questo sembra essere il sottotesto.

Cosa c’entra il Vaticano?

Ora che cosa c’entri il Vaticano con le riforme del governo Meloni come rapporti tra stati non si capisce. A meno che Meloni non volesse rassicurare il Vaticano che se passa l’autonomia differenziata non deve preoccuparsi di stipulare venti versioni, aggiornate alle regioni di riferimento, del concordato, giacché almeno per il concordato garantisce lei, sia pure ristretta senza grandi poteri nelle mura di palazzo Chigi.

Quanto poi al premierato che farebbe gli interessi anche dell’opposizione, non si capisce, come pure per l’autonomia, perché Meloni non glielo chieda nelle sedi opportune, in parlamento, anziché andare avanti a prescindere.

In fondo era quello che chiedeva Zuppi: di concordare le riforme con l’opposizione e con il paese, e non limitarsi al proprio “seguito”, in una versione all’amatriciana del premierato, del Führerprinzip, annunciato.

Le ha proposto, cioè, Zuppi una visione “concordataria” del riformismo istituzionale, non solo a lei ma anche alle opposizioni, come opportunità di discernimento per tutti nel merito degli esiti possibili delle riforme. Ma Meloni gli ha risposto che la concordia riformista per lei non porta da nessuna parte, e lo spirito costituente della Repubblica è un ferro vecchio.

«Chissenefrega»

Lei, se non otterrà in aula la necessaria maggioranza dei due terzi, è pronta a dare la voce direttamente al popolo. Il che ci potrebbe pure stare, se non avesse dichiarato urbe et orbi che, nel caso il popolo le dicesse no, «chissenefrega», rispolverando in chiave anticoncordataria il lessico del «me ne frego».

Insomma, che lei, peggio che il papa re, non presenterà le dimissioni per raggiunti limiti politici, per dissenso del suo “gregge”. Il no a un referendum per lei avrà il valore politico di un belato di pecoroni. A farle usbergo ci sarà il suo “seguito” nel paese irreale di un parlamento ancor più minoritario nella rappresentatività effettiva della società italiana di quello di oggi. Per favore, aggregateci a Roma, al papa re, che forse democraticamente ci conviene.

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