Il grado di trasparenza del processo decisionale del governo è decisamente basso. Il disegno di legge di bilancio lo ha dimostrato ancora una volta. Era stato approvato nel Consiglio dei ministri il 16 ottobre scorso. Subito dopo, in una conferenza stampa, ne erano stati esposti i contenuti. Le bozze circolate nei giorni successivi avevano, tuttavia, mostrato difformità rispetto a quanto annunciato nella conferenza. Ma il ministero dell’Economia aveva comunicato che esse dovevano «ritenersi non attendibili». Era poi emerso che sarebbero state necessarie ulteriori interlocuzioni fra i partiti della maggioranza, a causa di vedute differenti su diversi punti della manovra, per raggiungere un’intesa da formalizzare nei contenuti della legge. In conclusione, il testo deliberato in Cdm – poi arrivato in Parlamento soltanto il 31 ottobre scorso - era stato scritto sulla sabbia, ammesso che fosse stato messo per iscritto.

Dunque, il disegno di legge è stato definito solo a seguito di accordi raggiunti al di fuori del Cdm. Ma quando il Consiglio approva un ddl - competenza prevista per legge (l. n. 400/1988) - ci si aspetta che condivida e adotti un articolato completo in ogni sua parte, e non vaghe intese da mettere a punto in sedi informali. Qualunque organo collegiale, infatti, esprime validamente il voto su un atto a condizione che l’atto stesso non solo esista, ma sia determinato puntualmente. Se così non fosse, tra l’altro, il testo ufficiale potrebbe essere difforme rispetto a quanto deliberato.

E non è tutto. La definizione di un testo in luoghi diversi da quello a ciò preposto – il Cdm – contrasta con il principio della responsabilità collegiale dei ministri (art. 95, c. 2, Cost.). Come possono questi ultimi essere considerati responsabili di un atto il cui contenuto, al momento della deliberazione ufficiale in Consiglio, non era ancora stato chiarito?

La disciplina delle riunioni

Un Dpcm del 10 novembre 1993 ha introdotto il regolamento che disciplina il funzionamento del Cdm. Circa le riunioni del Consiglio, il regolamento si limita a precisare a chi spettano le funzioni di verbalizzazione e a chi quelle di presidenza, dando quindi per scontato che le decisioni vengano prese da chi è legittimato a partecipare alle riunioni stesse: il presidente del Consiglio e i ministri; il sottosegretario di stato con funzioni di segretario del Consiglio dei ministri; i presidenti delle regioni a statuto speciale e delle province autonome, quando prescritto. Ma non tutto viene deciso in Consiglio, come visto.

Allora, come accertare cosa accade in quella sede? Per le riunioni del Cdm viene redatto un apposito verbale, nel quale dovrebbe darsi conto di cosa accade al suo interno. Ma, in base al regolamento, il verbale resta riservato. Può prenderne visione solo chi vi partecipa, nonché eventuali soggetti autorizzati dal Presidente del Consiglio, salvo che il Cdm abbia deliberato diversamente. Insomma, a esclusione di questi casi, il verbale resta “segreto”, pur essendo un atto la cui conoscibilità diffusa sarebbe necessaria. Mediante esso, infatti, i cittadini sarebbero messi in condizione di sindacare le modalità in cui vengono adottate decisioni che li riguardano. La disciplina del verbale andrebbe quindi ribaltata: piena trasparenza, salvo eccezioni specificamente previste.

L’opacità decisionale

Dunque, manca ogni trasparenza sull’attività deliberante di coloro i quali detengono il potere di incidere sulla vita di tutti. Non si conosce il testo che entra in Cdm; non si può avere alcuna contezza di ciò che accade in Cdm; ma si sa che nei giorni successivi si continuano a cercare mediazioni in sedi informali, e pertanto non disciplinate, cioè al di fuori del Cdm.

Se, come per questa legge di bilancio, il testo ufficiale non viene puntualmente scritto e approvato in Consiglio, dato che la concreta attività decisionale si svolge al di fuori di esso, e se poi il governo preclude alla maggioranza la possibilità di presentare emendamenti in Parlamento, ciò significa in buona sostanza che il testo normativo passa al di sopra dei soggetti cui costituzionalmente sarebbe affidata la sua definizione.

“Così fan tutti”, si potrebbe obiettare. Ma anche per questo è necessario evidenziare le storture di un metodo che, essendo poco trasparente, non pare rispettoso di principi democratici e liberali. L’assuefazione al potere gestito in luoghi riservati, nell’opacità, può portare a esiti che sarebbe meglio evitare.

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