Il presidente campano ha guidato 200 sindaci fino alla porta (chiusa) di palazzo Chigi. Presedente il Pd, assente la segretaria. Polemiche perché ha dato della «stronza» alla premier
Lo scambio di accuse con la premier Giorgia Meloni, e lo scambio di silenzi con Elly Schlein. Per le vie del quadrilatero politico della capitale è sfilata la doppia disfida romana di Vincenzo De Luca. Una vicenda seria, a dispetto delle pose da capopopolo del suo condottiero. È partito con un comizio a piazza Santi Apostoli davanti a 700 amministratori campani, di cui 200 sindaci. Da lì ha attaccato la premier contro l’autonomia differenziata, «la legge truffa», ed ha reclamato lo sblocco dei fondo di coesione e sviluppo per i quali ha già presentato un esposto contro il ministro Raffaele Fitto.
Orgoglio meridionale contro retorica secessionista: «Siamo qui per bloccare il racconto infame per il quale al nord c’è la virtù e al sud ci sono i miserabili e i cialtroni. I presenti in questa piazza sono i principali avversari della cialtroneria meridionale dove e quando c’è. Siamo contro le porcherie clientelari, ma vogliamo combattere ad armi pari». Piazza piena. Ma dopo mezz’ora la cosa stava finendo lì. E rischiava di non bucare i tg, in una giornata in cui nel frattempo è arrivata la drammatica notizia del crollo di Firenze e della morte del dissidente russo Navalny.
La marcia delle porte chiuse
E allora De Luca s’inventa una marcia longa: guida il suo drappello verso il ministero delle Politiche di coesione di Raffaele Fitto, a poche centinaia di metri. Trova tutto sbarrato. Perde le staffe a favore di telecamere: «Fate aprire il portone a questi conigli». Ma il ministro è in Calabria, con la premier, precisamente al porto di Gioia Tauro per la firma dell’Accordo per lo sviluppo e la coesione tra governo e regione.
De Luca ne era informato. Allora il capopopolo guida i suoi verso una nuova tappa della via crucis romana: palazzo Chigi. All’imbocco dello slargo è stoppato dalla polizia, che respinge con troppo zelo il plotoncino di fasce tricolori. Di nuovo il governatore dà in escandescenze: «Chiedete che qualcuno venga qui a parlare, sennò dovete caricarci, è chiaro? Ci dovete uccidere». Alla fine però si convince: può passare, ma solo lui.
E lui passa, e va a piazzarsi teatralmente davanti al portone della sede della premier. Sbarrato pure questo. Ma la foto iconica di un palazzo che chiude le porte al sud c’è. C’è però anche una porta aperta, pochi passi più in là, quella della Camera. Il presidente la imbocca: peccato che il Transatlantico è deserto. Lì, tirando il fiato su un divanetto, con quattro cronisti di guardia intorno, viene informato delle ruvide parole di Meloni contro di lui: «Se invece di fare le manifestazioni ci si mettesse a lavorare, forse si potrebbe ottenere qualche risultato in più».
De Luca cerca un altro titolo, quello di troppo. «Senza soldi non si lavora. Stronza, lavori lei», replica. Dal governo e dalla maggioranza tutti intimano a Elly Schlein di dissociarsi dal linguaggio poco istituzionale (persino «sessista», non si capisce perché) del suo (si fa per dire) governatore. La destra ha trovato l’assist per cambiare la notizia di giornata.
Assedio immaginario al Pd
La via crucis è quasi finita. Ultima tappa via Poli – sempre a due passi da lì –, alla Rappresentanza istituzionale della Campania. Qui il portone è aperto, De Luca sale. Ma siamo alle comiche finali: poco oltre c’è la sede del Pd. E le forze dell’ordine si schierano davanti all’entrata. Le tv catturano un’immagine paradossale, ma forse neanche troppo: un partito difeso dall’eventuale arrivo di un suo potente dirigente. Dall’interno del Nazareno gli uomini della sicurezza pregano gli agenti di sciogliere il cordone che, ci giurano, non è stato chiesto da loro.
Morale della giornata. La sfida a Meloni va a segno. Al di là delle intemperanze, De Luca rappresenta gli umori del sud meglio del collega calabrese che applaude all’autonomia differenziata. E Meloni, nonostante tutto, fatica a intestarsi la legge «spacca-paese» imposta all’alleato leghista.
Meno brillante l’esito della performance all’indirizzo della segretaria Pd. De Luca voleva “pesarsi” in una piazza romana, dimostrare la sua forza in vista delle europee ma soprattutto della decisione sul terzo mandato alla regione (al quale Schlein cerca un modo per dire no senza rompere con la minoranza interna). Il Pd ha condiviso la protesta del presidente. La segretaria lo ha fatto mantenendo le distanze: ha rilasciato un’intervista a Repubblica contro «la patriota che divide l’Italia», cioè Meloni, ma senza mai nominare l’iniziativa di giornata. E in piazza non si è fatta vedere: ufficialmente era impegnata in un incontro con i rappresentanti del mondo dell’agricoltura.
Ma mai avrebbe associato la sua presenza a una manifestazione di un dirigente che passa il tempo a darle della cantante «dello Zecchino d’oro». In piazza c’erano Marco Sarracino, della segreteria, responsabile sud, Antonio Misiani e Susanna Camusso, rispettivamente commissari del Pd campano e del Pd di Caserta. Tutti e tre compagni di partito ma avversari interni. C’era il figlio, il deputato Piero De Luca, e l’europarlamentare Pina Picierno, pontiera fra le anime rissose del partito campano.
Sarracino si dissocia dagli insulti alla premier, ma attacca il governo: «Ci troviamo di fronte a 200 sindaci che chiedono un incontro. E non è possibile che non si sia trovato un ministro, un sottosegretario, un funzionario che potesse in qualche modo incontrarli. I Fondi di coesione non sono una gentile concessione ma un diritto».
In piazza anche il presidente dell’Anci Campania Carlo Marino. Ma non quello dell’Anci nazionale, Antonio Decaro, “avvisato” dai sindaci targati FdI di non consentire l’uso «politico» dell’associazione. Non c’era nemmeno il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi: ha delegato l’assessora al Turismo, Teresa Armato, ad andare a Roma, ma con palazzo Chigi preferisce «la linea del dialogo».
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