«Bologna non dimentica», lo striscione di apertura del corteo è il simbolo di una città coperta di ferite, impossibili da cicatrizzare fino in fondo. Soprattutto per quei costanti tentativi di riscrittura della storia della strage alla stazione del 2 agosto 1980.

«Terrorismo fascista», è la scritta sulla lapide nella sala d’aspetto. Eppure in questo 2 agosto, con il governo di estrema destra guidato da Giorgia Meloni, nulla è scontato, né le certezze offerte da decenni di processi giunti a sentenze definitive sugli esecutori, né quelle emerse nei procedimenti più recenti ancora al primo grado sui mandanti occulti.

A mettere la bomba furono i neofascisti dei Nuclei armati rivoluzionari, i Nar: dalla galassia del movimento sociale, Giusva Fioravanti, Francesca Mambro, Gilberto Cavallini e Luigi Ciavardini, imbracciarono le pistole per costruire il percorso di lotta armata che loro definivano “spontaneista”, etichetta che i processi su Bologna dimostreranno farlocca, in quanto i Nar erano manovrati e legati agli apparati deviati della Repubblica.

Le sentenze, dunque, dicono che sono stati loro insieme a Paolo Bellini ad avere massacrato 85 persone alla stazione di Bologna. Dietro di loro i mandanti, dirigenti dei servizi, e la P2 di Licio Gelli, che secondo la procura di Bologna ha finanziato l’attentato che ha fatto più morti nella storia del paese.

Silenzio sulla matrice

I fatti accertati, in estrema sintesi, sono questi. E da qui dovrebbe ripartire chi rappresenta le istituzioni. Il presidente della Repubblica ha rimarcato nel giorno del ricordo che «la matrice neofascista della strage è stata accertata nei processi e sono venute alla luce coperture e ignobili depistaggi, cui hanno partecipato associazioni segrete e agenti infedeli di apparati dello Stato».

Chiaro, senza giri di parole, insomma. La presidente del consiglio ha preferito la solita ambiguità. Le acrobazie lessicali di Fratelli d’Italia pur di non pronunciare la parola «fascista» sono una caratteristica ormai nota del partito di governo. «Il 2 agosto 1980 il terrorismo ha sferrato all'Italia e al suo popolo uno dei suoi colpi più feroci».

Silenzio sulla matrice. L’arduo compito di presenziare alla manifestazione con la cittadinanza, le autorità locali e le associazioni dei familiari delle vittime, è toccato al ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi. Da lui l’invito a riconoscere la verità giudiziaria, mentre Meloni e i suoi “fratelli d’Italia” invocano ancora una verità da raggiungere. Vorrebbero, cioè, una loro verità, utile più a smacchiare che a costruire memoria collettiva.

Alla commemorazione c’era anche il viceministro alle infrastrutture, il bolognese Galeazzo Bignami di Fratelli d’Italia, in gioventù fotografato a una festa vestito da gerarca nazista. «Come governo ha parlato Piantedosi, da avvocato io dico che c’è nella Costituzione il diritto alla difesa penale, che le sentenze vanno rispettate, poi è ovvio che i difensori possono fare loro azioni, se subentrano fatti nuovi».

I conti col passato

Anche per Bignami è difficile fare i conti con quel passato che affonda le radici nella commistione tra neofascisti allevati nel Movimento sociale italiano, servizi segreti deviati, massoneria e Gladio, la struttura paramilitare della Nato creata per difendere l’Europa dal pericolo comunista.

Lo dimostra anche il fatto di certe frequentazioni con i personaggi condannati e protagonisti dell’epoca della strategia della tensione, con la destra eversiva nelle sue varie declinazioni braccio armato da un potere che temeva di soccombere di fronte al progresso sociale innescato dalle lotte dei lavoratori. Il caos serviva a ristabilire l’ordine. Il disordine come strumento di diffusione della paura con le bombe nelle piazze, sui treni o alla stazione di Bologna. Ordine Nuovo e i Nar hanno giocato questa partita sporca del sangue degli italiani.

Le nuove inchieste sui mandanti dell’attentato di Bologna profilano scenari ulteriori, collegamenti di quel periodo con il terrorismo mafioso degli anni ‘92-94, portato avanti dalla mafia siciliana di Totò Riina, ma che avrebbe avuto l’appoggio di menti esterne all’organizzazione.

Bellini, condannato in primo grado per Bologna, è una figura che collega queste due stagioni: i suoi legami con quei mafiosi, la sua appartenenza al neofascismo, le relazioni con i servizi. Così come Stefano Delle Chiaie, scomparso nel 2019, è stato il fondatore di Avanguardia Nazionale, il movimento sciolto nel 1976: recenti inchieste sulle stragi mafiose puntano sul ruolo dell’eversione neofascista negli attentati di Palermo.

Se così fosse sarebbe la conferma che esiste una continuità della strategia della tensione, che si sarebbe così protratta fino ai primi anni del Novanta, con un impasto di servizi deviati, neofascismo e mafia.

Riscrivere la storia

La folta schiera di “patrioti” meloniani che brama l’istituzione di una commissione di inchiesta sulle stragi è il tentativo di smontare le verità acquisite in questi anni. Anche perché è nota l’attitudine della maggioranza a trasformare le commissioni di indagini un ring per regolare i conti: è lì a ricordacelo quella sul Covid, che ha escluso dal campo delle verifiche l’operato delle regioni, per salvare Attilio Fontana e la sua giunta dalle incapacità di gestione della prima fase della pandemia.

Il timore delle associazioni sono più che fondati. È ancora vivo il legame di Fratelli d’Italia con certi ambienti frequentati da reduci della destra eversiva. Ciavardini, uno degli esecutori della strage, gode di ottime entrature nella destra istituzionale grazie al suo lavoro nelle carceri tramite una cooperativa che negli anni si è ritagliato un posto di rilievo nel settore.

È un fatto che in una recente indagine della procura antimafia di Caltanissetta, emergono i tentativi degli amici di Delle Chiaie di agganciare persino Meloni per sottoporgli il progetto di creare un osservatorio sulla magistratura “sgradita”.

L’inchiesta è una costola di una più ampia attività investigativa sulle contaminazioni “nere” nelle stragi di mafia del ‘92, in particolare nella mattanza di Capaci in cui sono stati uccisi Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta (Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro).

Il negazionismo però non cede neppure di fronte a tutto questo. Riscrivere la storia della strategia della tensione è un sogno dei patrioti al governo. E difficilmente rinunceranno a realizzarlo.

© Riproduzione riservata