Troppo impegnati a farsi del male tra loro, i partiti dell’opposizione tralasciano di dire una semplice verità. Da mesi il governo Meloni ha spento i motori.

La riforma della giustizia? Sparita. Il premierato forte? Un rebus irrisolvibile, non solo politico e giuridico, ma anche linguistico.

L’articolo 4 approvato dalla commissione Affari costituzionali del Senato, preso alla lettera, introduce in Costituzione una figura originale, il premier resuscitato: «Nei casi di morte, impedimento permanente, decadenza, il Presidente della Repubblica può conferire, per una sola volta nel corso della legislatura, l’incarico di formare il Governo al Presidente del Consiglio dimissionario o a un altro parlamentare eletto in collegamento con il Presidente del Consiglio». In caso di morte del premier ci può essere il reincarico, per una sola volta, però, meno male.

Gli sbarchi dei migranti? Sono ripartiti: 3500 nel mese di aprile, furono 4000 nel 2023, anno record. L’economia? Arranca, per bocca del ministro Giorgetti. E alla fine della settimana che ha visto sette lavoratori morti nella centrale di Suviana e la protesta degli operai di Stellantis per il futuro degli stabilimenti, Giorgia Meloni interviene contro l’utero in affitto, che non sembra al primo posto nelle preoccupazioni di fine giornata, e contro i «cattivi maestri che davano il 6 politico», di non stringente attualità. Non fosse altro che molti di loro sono morti.

Di fronte a questo deserto di idee e di attività, se non ci fosse la Puglia le redazioni politiche resterebbero disoccupate. Per fortuna c’è Giuseppe Conte che intrattiene il ristretto circo politico, indossa il vestito dell’illusionista per il gioco di prestigio più elogiato dai commentatori, uscire e rientrare dalla giunta pugliese di Michele Emiliano, previo atto di costrizione pubblico del presidente pugliese: «Farò quello che dice lui».

Conte per Conte, meglio allora applaudire l’altro Conte, Paolo: «Non perderti per niente al mondo lo spettacolo d’arte varia di uno innamorato di te». Elly Schlein appare in ostaggio dei boss locali del Pd e dei loro terminali romani. Viene accusata di essere sostenuta dai capibastone del Pd per non fare nulla ma anche per il motivo opposto, perché sta distruggendo la storia del Pd. Contro i cacicchi inamovibili, Schlein ha fatto l’operazione più radicale, trascinando un Pd malmostoso a votare in Parlamento contro il terzo mandato, era fortemente voluto dal partito dei sindaci e dei presidenti di regione, che si schierarono tutti contro di lei all’ultimo congresso, con l’unica eccezione del bolognese Matteo Lepore.

Il volto di quello che è oggi il Pd, un partito di eletti, con pochi elettori. Spesso gli eletti sono nominati, le cariche di partito coincidono con gli incarichi amministrativi, stringendo il partito e l’amministrazione in una morsa «populista, arrogante e clientelare», ha sintetizzato Lazzaro Gigante sul caso Emiliano.

La questione morale è una cosa seria se agitata da Enrico Berlinguer, ha scritto ieri Emiliano Fittipaldi. Ma per l’elettore disorientato la questione morale coincide con la questione politica più importante: la fine della credibilità degli uomini e delle donne che fanno politica, l’efficacia delle loro parole e delle loro azioni, lo spegnersi della democrazia.

La questione non riguarda soltanto i partiti, ma le organizzazioni sociali, l’opinione pubblica più larga, giornali compresi (sulla crisi parallela del Pd e del gruppo editoriale fondato da Eugenio Scalfari ha scritto ieri cose condivisibili Michele Mezza su “Professione reporter”). «La democrazia muore nell’oscurità», è il motto del Washington Post.

La politica muore nell’oscurità delle posizioni, nella «melma indistinta», di cui ha parlato Schlein a Bari. Il trasformismo e l’antipolitica non ammettono identità politiche, non tollerano progetti forti, il loro habitat naturale è il calderone, l’indifferenza con cui puoi allearti con tutti, o con nessuno. Destra e sinistra sono corazze troppo pesanti da portare, il novecento è finito bellezza, basta nostalgie del passato.

A furia di ripeterlo sono spariti gli elettori (e anche i lettori). Il risultato non è un dibattito più civile, più polarizzato, perché sembra non esserci nulla in mezzo tra i cacicchi, multiuso e intercambiabili, e le tribù, con i loro capicurva mediatici. Non è una partita persa, perché in mezzo, invece, c’è tanto spazio.

A patto di uscire dall’ipnosi dei maghi del Palazzo e di andarselo a prendere. Sul periodo più lungo significa ricostruire identità di partito. Ma a meno di due mesi dal voto europeo è urgente smettere di ascoltare il capriccio di un assessore da azzerare e saltare le mediazioni estenuanti, tornare a rivolgersi direttamente all’elettorato incustodito, di cui in questi giorni non sembra occuparsi più nessuno.

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