Con le sue migliori intenzioni e il suo miglior umore, il presidente del Senato Ignazio La Russa si presenta ai cronisti – in ritardo causa caos voli – per rispondere alle loro domande. È la cerimonia del Ventaglio, tradizionale saluto alla stampa prima delle ferie estive. Una prassi, quella delle domande libere, che – va detto – ha introdotto lui a palazzo Madama. Prima la seconda carica dello stato accettava solo quelle contenute nell’introduzione del presidente della stampa parlamentare.

La Russa vuole dimostrare di essere democratico, amichevole e anche cordialone. L’incontro inizia con uno scherzo ai parlamentari di maggioranza presenti alla Sala Koch: «Romeo (Massimiliano, capogruppo leghista, che il cerimoniale ha piazzato a metà platea, ndr), vieni a sederti avanti, tanto non c’è nessuno di Forza Italia». L’allusione è alle risse fra FI e Lega. Risate. Maurizio Gasparri alza la mano: «Ci sono io». Altre risate.

Dietro la scioltezza esibita però presto affiora la tensione. Per La Russa è un momento delicato. Notizie di stampa descrivono il Colle molto irritato per il caso di Rosanna Natoli, consigliera laica del Csm, componente della Commissione disciplinare, amica sua e da lui sponsorizzata a palazzo dei Marescialli.

È stata “registrata” mentre tenta di dissuadere la magistrata Maria Fascetto Sivillo, imputata in un procedimento per tentata concussione, dall’intento di ricusare il suo giudice. Per il Colle a Natoli non restano che le dimissioni, non solo dalla Commissione, già rassegnate, ma dal Consiglio. Natoli però fino a oggi resisteva. Nessuno riesce a convincerla: circolano voci, non verificabili, che ci siano altre registrazioni, e che tirino in ballo anche altri, forse persino cariche dello stato.

La prima domanda per La Russa è: consiglierebbe all’amica Natoli di dimettersi? Lui ruggisce: «Non do consigli, così come lei non ne chiede a me io non ne chiedo a lei». Vorrebbe chiuderla qui, e ma poi di nuovo ai cronisti deve giurare che in questi giorni non ha «mai» sentito Natoli.

«Joly non si è dichiarato»

Ma a perdere completamente il timone è sul pestaggio di Andrea Joly, giornalista della Stampa. L’episodio risale a sabato notte. Joly sta documentando (è il suo lavoro) la “Festa della Torino nera” di CasaPound davanti al pub Asso di Bastoni (il nome è tutto un programma). La Russa ha già espresso la sua solidarietà al pestato. La ribadisce.

Ma non riesce a resistere al “però”, i cronisti che le prendono in fondo se le vanno a cercare: «Ho letto che non si è mai dichiarato come giornalista». L’idea del presidente è che se si fosse dichiarato gli energumeni (due sono già stati identificati, un terzo indagato, leghista, è stato cacciato dal suo partito) non lo avrebbero scaraventato a terra e preso a calci. Il lavoro del cronista è dunque «un’incursione», dice, sebbene «legittima», concede. La Russa ricorda i servizi undercover di Fanpage che hanno rivelato la presenza di antisemiti nella giovanile di FdI, per i quali la destra, da Giorgia Meloni in giù, se l’è presa con il metodo giornalistico.

E avverte: «Non vorrei che entrasse troppo nell’uso quotidiano l’inserimento di metodologie che creano reazione che non vogliamo mai avvengono». Insomma, a fare il proprio mestiere un cronista provoca. Poi però si riprende: «Non sto giustificando niente». Poi di nuovo qualcosa non gli torna: «Non credo che il giornalista passasse lì per caso». Passava per caso e ha visto una cosa che era una notizia: ma se invece anche non fosse passato per caso, se avesse ricevuto una soffiata sull’appuntamento, cosa cambierebbe?

Pd come CasaPound

Arriva il gran finale. Gli viene chiesto se CasaPound vada sciolta per ricostituzione del partito fascista. C’è un antefatto: la rete ha restituito un filmato in cui nel 2019 l’allora esponente di FdI è allegramente ospite di CasaPound a Verona, perfettamente a suo agio. Oggi prova a pattinare sulla questione: «Non tocca a me decidere lo scioglimento di CasaPound, c’è un percorso».

È vero, ma un’opinione potrebbe essersela fatta, per aver conosciuto “i fascisti del terzo millennio” così da vicino. Invece ancora una volta non resiste alla battuta: «C’è un consigliere del Pd che ha fatto male a uno della Lega, non vorrei che quelli della Lega chiedessero lo scioglimento del Pd». Gelo in sala, qualche famiglio prova a far partire la risata, ma anche i senatori di maggioranza sono imbarazzati.

Non è finita, ne ha un’altra. Di nuovo contro un giornalista: è Paolo Berizzi, cronista sotto scorta per le sue inchieste sul neofascismo, che a proposito della partita di beneficenza fra la nazionale calcio cantanti e quella politici, ha scritto sui social: «Capisco la solidarietà» ma «non è obbligatorio giocare a calcio con dei fascisti», «alla prossima su via Rasella tiriamo fuori il pallone?». La Russa tira fuori l’argomento a freddo, nessuno glielo chiede, ma lui si è preparato un’altra battuta e vuole dirla: «Io non gioco a calcio con Berizzi».

Gli sfugge la differenza fra l’opinione di un giornalista minacciato e quella di un’alta carica dello stato, che peraltro – per sua stessa ammissione ieri sul Corriere – è stato a suo tempo «benevolo» con il fascismo perché, spiega, da ragazzo delle leggi razziali «quasi non me ne aveva parlato nessuno».

Le opposizioni si scatenano: «Parole inammissibili» quelle sui cronisti e quelle sul paragone con fra CasaPound e il Pd (Francesco Boccia, Pd). «Ora capiamo meglio perché la destra estrema attualmente al potere in Italia si rifiuta di sciogliere CasaPound (Marco Meloni, Pd). «Perché dalle parti di questa destra c’è così tanta allergia verso la libertà di stampa e i giornalisti?» (Nicola Fratoianni, Avs), «Se non vuoi essere picchiato ti devi dichiarare giornalista, imbarazzante e ingiustificabile» (Angelo Bonelli, Avs).

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