La democrazia si nutre di competizione tra diverse visioni; la dialettica politica è cosa buona e naturale. Alla scuola di Bobbio, mi ostino a pensare che la dicotomia tra destra e sinistra non sia affatto priva di significato e dunque da archiviare. Anche se – è ovvio – le sue determinazioni vanno incessantemente reinterpretate e declinate storicamente.

E tuttavia una democrazia sana e matura presuppone la sostanziale condivisione delle regole del gioco. A cominciare da quelle più alte ovvero le regole costituzionali e i principi su cui esse si reggono.

I costituenti amavano la metafora della Repubblica quale «casa comune». Se ne ricava la consapevolezza che imporre sostanziali rifacimenti delle linee portanti della casa a chi la abita conduce chi li subisce a sentirsi “fuori casa”, mal sopportato in casa d’altri. Dunque, a patire uno strappo e una ferita.

La maggioranza

È difficile non inscrivere le tre riforme concepite al modo di baratto politico tra i tre partiti di maggioranza sotto la doppia cifra a) del metodo opposto a quello della condivisione ovvero la unilateralità e l’imposizione di parte; b) del merito che intacca principi e architettura costituzionale.

A dispetto della mistificazione minimalista di Meloni, peraltro tre volte contraddetta: da lei medesima quando prospetta il premierato come madre di tutte le riforme; dalla Lega che inneggia all’autonomia differenziata come l’alba di un nuovo stato federale; da FI che legge la separazione delle carriere dei magistrati come il traguardo di trent’anni di guerra berlusconiana ai pm. Del resto, trattasi di tre partiti oggettivamente estranei alle culture dei costituenti.

I principi della Carta

Che in gioco siano principi cardine della Costituzione è circostanza evidente: la forma unitaria dello stato e la coesione sociale e nazionale; la forma di governo parlamentare; la separazione e l’equilibrio tra i poteri; lo svilimento degli organi terzi di garanzia a cominciare dal Quirinale.

Lo ha inteso benissimo la larga maggioranza dei costituzionalisti con poche eccezioni, circoscritte a quelli più sensibili alle sirene e alle lusinghe della maggioranza politica; così pure – significativamente – lo hanno inteso gli uomini di chiesa che, dopo la fine dell’unità politica dei cattolici, hanno somma cura di non prendere parte tra le forze politiche.

Avendo compreso che, in questo caso, non si tratta di sposare una parte politica, ma di custodire un bene comune superiore alle parti: la legge fondamentale che detta le ragioni della civile convivenza. Evocando il libro biblico dell’Ecclesiaste («c’è un tempo per tacere, c’è un tempo per parlare»), i vescovi italiani hanno fatto eco ai duecento costituzionalisti, al grido loro e della senatrice Liliana Segre: «Non possiamo tacere». Ci siamo espressi, ha notato seccamente il pur mite cardinale Matteo Zuppi, presidente Cei, ma «non ci hanno presi sul serio».

Per converso non stupiscono – ne conosciamo l’indole invincibilmente pavida e collaborazionista – certi professionisti del “terzismo” giornalistico e politico che si segnalano per la somma cura di sottrarsi al dovere di prendere parte quando sono in gioco principi e valori che invece prescriverebbero il linguaggio evangelico del “sì sì no no”.

Ignavi, non moderati. Perché gli estremisti sono piuttosto quanti si arrogano il diritto di riscrivere la Costituzione come fa comodo loro; moderati sono semmai i liberal-democratici decisi a contrastare chi, nel metodo e nel merito, non rispetta i limiti posti all’esercizio del potere di chi comanda. Limiti che sono il cuore stesso del costituzionalismo democratico.

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