Un «uomo senza dignità». Così, senza giri di parole, l’ormai ex sottosegretario, Vittorio Sgarbi, ha definito il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano. Le dimissioni rassegnate nella giornata di sabato hanno scatenato la furia del critico d’arte, già noto per non saper placare i propri impeti. Eppure appena qualche settimana fa, il vulcanico critico d’arte ha manifestato una forma di ammirazione, nonostante le tensioni dei mesi precedenti, nei confronti di Sangiuliano. Tanto che volle mettere nero su bianco il giudizio positivo verso l’ex direttore del Tg2, voluto da Giorgia Meloni alla guida del Mic. Nel numero di gennaio 2024 del Giornale dell’Arte, infatti, Sgarbi ha indicato Sangiuliano come miglior politico del 2023. Un gesto di apprezzamento, probabilmente pensato per arrivare a una distensione. Solo che non c’è stato alcun effetto: il ministro ha continuato a ignorare il critico d’arte, cercando di tenere bene le distanze. 

E la lettera dell’Antitrust, anticipata dal Corriere della Sera, ha dato ragione al ministro: Sgarbi, secondo quanto scrive l’Autorità, «ha esercitato attività professionali in veste di critico d'arte, in materie connesse con la carica di governo, come specificate in motivazione, a favore di soggetti pubblici e privati». E ancora: «Il principio di dedizione esclusiva alla cura degli interessi pubblici non può, di fatto, essere svuotato di contenuto mediante una indefinita sommatoria di attività che, anche là dove ritenute singolarmente consentite, nel loro insieme difettino dei requisiti dell'occasionalità e della temporaneità, comportando una rilevante sottrazione di tempo e di risorse intellettuali al perseguimento degli interessi sottesi alla carica di governo». Nel dettaglio viene contestato al critico d’arte l’incompatibilità tra la carica di governo e il rapporto due società Ars e Hestia.

Insomma una lettera dura, che ha fatto archiviare il tempo della mediazione. Per questo Sgarbi ha tirato fuori il suo piglio solitamente fumantino verso il ministro. E dopo le dimissioni si è dedicato all’insulto per non averlo difeso a spada tratta dopo le inchieste giornalistiche del Fatto Quotidiano sui compensi percepiti dal sottosegretario nell’ambito di iniziative culturali. Insomma, siamo al “c’eravamo tanto amati”. O quantomeno un bel po’ stimati fino a poche settimane fa. Ma poi è finita male.

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