Antonio Tajani colleziona alleati. In vista delle elezioni europee – a cui ha annunciato giusto ieri di volersi candidare – il suo nuovo credo è la condivisione. Soprattutto quella proiettata verso nord, stando agli apparentamenti con la Südtiroler Volkspartei e con Pays d'Aoste Souverain, o anche alla feroce campagna acquisti dalla Lega organizzata da Flavio Tosi. 

È l’ultimo tassello della strategia del segretario che ha fatto non solo sopravvivere il partito fondato da Silvio Berlusconi, ma addirittura l’ha portato a rifiorire. Al punto tale da arrivare a ridosso delle europee con il secondo posto in coalizione a portata di mano, a scapito della Lega. Ma per agguantarlo serve centrare un risultato che sia anche solo un nonnulla sopra a quello di Matteo Salvini: per riuscirci, il cerchio intorno a Tajani si è lanciato in un’opera diplomatica di assorbimento e rivitalizzazione dei territori che sta dando i suoi frutti. Ma l’operazione ha un rischio, quello di scontentare la vecchia guardia del partito. 

I bacini delle minoranze

Per quanto riguarda Svp e Pays d’Aoste, dentro il partito parlano di un approfondimento di un legame già presente. Entrambi i partiti territoriali sono collaborazioni ghiotte che i partiti maggiori si contendono da anni: grazie alle agevolazioni per le minoranze linguistiche, eleggono un rappresentante praticamente per certo.

Bastano infatti 50mila voti per mandare qualcuno a Bruxelles, pochissimi in territori praticamente monocolore come Alto Adige e Valle d’Aosta. Per dire, Herbert Dorfmann, l’uomo della Svp a Bruxelles già da tre legislature, alle europee del 2019 ha preso quasi il doppio delle preferenze necessarie. In quell’occasione, però, correva sostenuto dal Pd: stavolta sarà un ritorno alle origini, visto che nel 2014 Dorfmann era in quota FI-Ppe. Stesso discorso in Valle d’Aosta: intestarsi un europarlamentare dall’elezione “automatica” in più, anche se non si tratta di un nome organico, è un successo facile che fa gola. 

La versione ufficiale è che si tratta di un processo di coinvolgimento degli elettori delusi, l’occasione per «essere nel governo d’Europa per incidere». Ma la stilettata alla Lega – anche se tutti giurano che non si tratta assolutamente di una gara interna alla maggioranza – arriva comunque: «Fuori dal governo si può solo protestare». Insomma, la linea anti-europea della Lega non paga, quella pragmatica di alleanza nell’esecutivo sì. 

Certo, intervenire sul dna di un partito romanocentrico come Forza Italia non è cosa facile, anzi. D’accordo il rientro di Noi moderati di Maurizio Lupi, da sempre partito apparentato con Forza Italia, d’accordo anche la strategia personale di Tajani, che da ministro degli Esteri inizialmente un po’ in ombra dietro i mandarini della Farnesina si sta ritagliando un ruolo di primo piano nella gestione delle crisi internazionali – con un tocco berlusconiano che di tanto in tanto affiora, come nella decisione di donare al segretario di Stato Antony Blinken un disco dei Maneskin per il suo compleanno che cadeva durante l’ultimo summit a Capri – ma certi allargamenti a una fetta di partito non vanno proprio giù. 

Le polemiche

«Letizia Moratti, Roberto Cota, Marco Reguzzoni e Paolo Damilano un anno fa non erano nemmeno in Forza Italia» commenta un dirigente di primo piano a taccuini chiusi. I toni sono aspri, l’impressione è che si stia sbagliando obiettivo: «Il nemico non è la Lega» spiegano, «ma ci ritroviamo di fronte a un partito che svende sé stesso mortificando la propria classe dirigente». Non si tratta insomma più della difesa di una questione settentrionale come quella che veniva portata avanti da Mariastella Gelmini, ma di «guerre di ripicca». 

L’altra questione è che la fiducia nei nuovi acquisti è limitata, per usare un eufemismo. «Non c’è certezza di quali siano le loro priorità. Perché li abbiamo tirati dentro? Cosa ci piaceva di loro? La pensano come noi su tutti i punti più importanti?» sono le domande che rimbalzano nella vecchia guardia. Per il momento anche i veterani hanno accettato di mandar giù il rospo, ma l’impressione è anche che i nuovi innesti possano rivelarsi pronti a migrare presto altrove, e con loro i loro elettori, a differenza di quelli attratti dal voto d’opinione. È anche una questione di numeri: «Quanto possono mai portare questi singoli? L’1 per cento alle europee vale 300mila voti, con questi siamo fortunati se ce ne portano un decimo a testa». 

Troppi pochi posti disponibili per troppi impegni. Un classico di Forza Italia, racconta chi conosce bene il partito. «Verdini faceva sempre una battuta perfetta: “Berlusconi promette a tutti poi tocca a me far entrare il dieci nell’uno”. Oggi mi pare che siamo oltre il dieci». E a farne le spese è la vecchia guardia del nord, che pure – almeno per il momento – non reagisce. 

Dilemma Tosi

Soprattutto su Tosi si consuma l’indignazione degli azzurri. Il volto della costola Forza Nord ha di fatto formalizzato la rottura con la maggioranza di Luca Zaia in Veneto in cui Forza Italia non ha più assessori ne presidenti di commissione. Una circostanza che gli lascia le mani libere per criticare, soprattutto sullo stato preoccupante della sanità in regione. Nel frattempo, la sua campagna acquisti di ex leghisti prosegue di buona lena. Ma c’è chi fiuta nel suo attivismo solo una ricerca di rivalsa personale nel match mai concluso con l’eterno presidente del Veneto Zaia. «Non sappiamo nemmeno quale sia la sua posizione sull’autonomia» dice un parlamentare. Per altro, negli ultimi giorni Roberto Occhiuto, presidente della Calabria, ha ulteriormente preso tempo proprio su quel provvedimento chiedendo una preventiva analisi d’impatto anche sulle materie escluse dai Lep. Una posizione non troppo sovrapponibile a quella che filtra dalla zona dei nuovi acquisti leghisti, che invece replicano che l’autonomia per come è costruita condurrà a un «percorso indolore che non toglie niente a nessuno», tanto che nessun parlamentare azzurro, nemmeno tra i meridionali, ha presentato emendamenti al testo.

Per il resto, è il ragionamento, lo spazio di manovra concesso a Tosi – entrato effettivamente in FI molto di recente, tra il primo e il secondo turno delle comunali di Verona nel 2022, dopo che era stato espulso dalla Lega di Salvini – è una scommessa in linea con il desiderio di Tajani di continuare il progetto di ancoraggio sul territorio di Forza Italia. L’ambizione è sempre la stessa: liberare Forza Italia dal suo romanocentrismo, per lo meno per il tempo delle europee. 

Il timore è anche che al nord si stia indirettamente facendo il gioco della Lega. Tosi ha sì risvegliato i forzisti nordici dormienti, ma pesca anche dalla Lega delle origini. Il caso più emblematico è quello di Toni Da Re, leghista storico espulso dalla Lega per aver dato del «cretino» a Salvini, approdato su invito dell’ex sindaco tra gli azzurri. I tosiani sono felici di ritrovare un punto di riferimento e qualcuno arriva a osservare che ci si può identificare più facilmente con il deputato azzurro che con la Lega di oggi. 

Ma il suo Forza Nord rischia di essere controproducente per il partito di Tajani. Oppure di essere uno sviluppo positivo per i leghisti delle origini, a seconda dei punti di vista: «Quello ci avrà scippato qualche nome, ma adesso Matteo ha capito» commentano i veterani del Carroccio, entusiasti del fatto che Salvini stia tornando a battere sui temi della tradizione e che si sia finalmente rivolto a un po’ di amministratori locali storici del nord per chiedere loro la disponibilità a correre per le europee. Un contributo al cambio di rotta, sostengono, l’ha dato anche l’attivismo di Forza Italia che ha spaventato perfino il cerchio magico di Salvini. «Sono quelli che stanno chiamando ora gli amministratori per cui posso fare campagna elettorale, per i vari Ciocca e Sardone ci riesco molto meno» confida un leghista di lunga data. E allora il rischio per Forza Italia è che, con un Salvini in grossa difficoltà e consapevole che di fronte a una performance scarsa qualcuno chiederà la sua testa, l’attivismo di Tosi possa dare la sveglia per la Lega e portarla a riconquistare quello che era il suo territorio. Quasi fosse un «male positivo». 

© Riproduzione riservata