Per un pugno di voti la Sardegna inverte la direzione del vento della politica, che soffia robusto da destra ma con un vigore forse meno intenso considerate le aspettative di tutti. È complessa e in parte contradditoria l’analisi del voto nell’isola, che sembra ancora una volta inafferrabile in certe sue sfumature.

Tanto per cominciare un sardo su due è rimasto a casa: ha votato il 52,4 per cento degli aventi diritto anche se, rovesciando il discorso, si potrebbe dire che l’affluenza non è crollata rispetto al 2019. Fattore per nulla scontato in un contesto generale che ha visto spalancarsi l’abisso ben al di sotto della soglia piscologica del 50 per cento.

Le ultime elezioni regionali in Lombardia e Lazio, per esempio, registrano un minimo storico di partecipazione ferma rispettivamente al 41,7 e al 45,4 per cento. E anche le previsioni per il voto in Sardegna sembravano in linea con questa tendenza, ipotizzate solo pochi mesi fa quando gli addetti ai lavori stimavano circa 100mila voti in meno di quelli messi a referto domenica alle 22.

A scongiurare un’ulteriore emorragia è stata probabilmente la sovrapposizione di temi regionali, cittadini e nazionali. Da un lato la forte polarizzazione contro la giunta uscente, cui non è bastato cambiare il candidato presidente per redimersi da cinque anni «non brillanti», per usare l’eufemismo di Salvatore Deidda (FdI), che in bocca al campo largo suona come «la peggiore giunta della storia dell’Autonomia».

Dall’altro il disastro di Cagliari città, che ha travolto tutto il popoloso hinterland e punito il suo sindaco, Paolo Truzzu, il candidato imposto da Giorgia Meloni.

La Sardegna è stata infine terreno di conquista dei leader nazionali, che per settimane hanno presidiato il territorio con una sfilata di ministri, sottosegretari e big di ogni colore. E c’è anche chi ha deciso di andare a votare turandosi il naso proprio all’ultimo momento, perché non è accettabile che i ragazzini vengano manganellati nelle piazze.

Chi non ha votato?

Ma chi sono invece i sardi che non votano? A chi è che la politica ha smesso di parlare? Secondo i politologi le ragioni dell’astensione hanno ovunque un’omogeneità di fondo: gli elettori pensano cioè di non poter incidere recandosi alle urne, di non avere il potere di cambiare le cose. Disgregato da tempo il senso di comunità, la politica è percepita come incapace di agire sulla vita del singolo.

Nello specifico, analizzando i dati, emerge che il partito del non voto risulta particolarmente forte nei piccoli e piccolissimi centri, quelli che hanno a che fare con il graduale inesorabile smantellamento dei servizi: scuole, ospedali, guardie mediche, uffici postali.

La maglia nera dell’astensione viene attribuita a Seui, Osini, Ballao e Bidonì, in cui l’affluenza ha di poco superato il 30 per cento.

In molti comuni circolano lettere di protesta contro il dimensionamento scolastico, mentre nelle aree rurali ha avuto un ruolo chiave l’agitazione del mondo agropastorale, che già nel 2019 era stata cavalcata da Matteo Salvini con una serie di impegni (poi disattesi) sulla vertenza del prezzo del latte.

La Sardegna è tante cose

In questo senso sorprende il risultato delle aree interne: Oliena, Orgosolo, Bitti, Gavoi, Belvì, Sorgono. Quella che in molti, specie i non sardi, amano definire la Sardegna più autentica – orgogliosa e indomabile – non considerando che l’unica verità sulla Sardegna è che non esiste una Sardegna più Sardegna di un’altra.

Semplicemente la Sardegna è tante cose, spesso molto diverse tra loro, in buona parte contraddittorie – e questo oltretutto è uno dei fattori che la rende difficile da governare.

Insomma sorprende che le aree interne della provincia di Nuoro, storicamente considerate roccaforti rosse, così come cinque anni fa, abbiano largamente premiato la destra con alcuni risultati addirittura plebiscitari per Paolo Truzzu (Mamoiada, Bitti, Belvì).

Tiene invece Nuoro città, dove si è registrato il picco di affluenza (56,6%) e l’exploit di Alessandra Todde, che a Nuoro è nata e cresciuta prima di girare il mondo per studio e lavoro: Stati Uniti, Spagna, Inghilterra, Francia, Olanda.

Il popolo di Todde

Imprenditrice e manager, Todde è considerata tra le cinquanta donne italiane più influenti nel mondo della tecnologia. Da elettrice è stata sardista prima che Solinas consegnasse il partito fondato da Lussu nelle mani di Salvini; da politica esordisce in parlamento nel 2019, tra le file del M5s, e durante il Conte II entra nella squadra di governo come viceministra allo Sviluppo economico (poi confermata da Mario Draghi). Non certo una grillina delle prima ora, mai sopra le righe.

Ma a chi ha parlato, dunque, Alessandra Todde? Principalmente alle aree urbane, intercettando il voto d’opinione con il suo alto profilo e un certo senso della misura.

Cagliari prima di tutto, con un distacco di quasi 20 punti percentuali, quindi Sassari (+17 per cento) e Nuoro (+21). Uno scarto che di fatto spacca l’isola in due ed evidenzia un limite storico della sinistra post comunista: la capacità perduta di saper parlare a tutti, soprattutto alle periferie, alle aree rurali, ai lavoratori e a quel che resta del proletariato.

«Uniti si vince», ha sottolineato Todde nella nottata di lunedì, tracciando anche su Roma la rotta del campo largo ma fingendo di dimenticare che uniti non si era, dopo lo strappo di Renato Soru.

L’ex governatore e fondatore di Tiscali è l’altro grande sconfitto di questa tornata: ha chiuso sotto il 10 per cento restando fuori dal Consiglio regionale. La sua coalizione comprendeva i moderati e alcune sigle della sinistra radicale, Carlo Calenda e gli antimilitaristi, i renziani e gli indipendentisti.

Insomma un’esperienza che difficilmente seminerà qualcosa nel tessuto politico regionale da qui a cinque anni, un’eredità che ridimensiona drasticamente la statura del suo leader. Todde ha vinto con uno scarto di circa duemila voti, l’8,6 per cento di Soru poteva costare carissimo alle forze progressiste.

La prima presidente donna nella storia della Sardegna passa oltre, cita la sua Grazia Deledda: «Tutto può essere vinto». Anche se a cose fatte risuonano piuttosto le parole di Sergio Atzeni: «A parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti, eravamo felici».

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