Per capire la logica che guida la nomina del nuovo vertice per il Tg1 è più semplice partire dai criteri che non sono stati utilizzati. L’indicazione di Monica Maggioni da parte del consiglio di amministrazione della Rai al posto di Giuseppe Carboni non è giustificata da ragione di ascolti. Sotto la gestione uscente il telegiornale della rete ammiraglia, infatti, è rimasto una testata solida con il 24 per cento di ascolti e più di cinque milioni di spettatori.

La ragione non può nemmeno essere ricavata dall’esperienza giornalistica specifica ai vertici di una testata. In un’azienda con assunti centinaia di vicedirettori e giornalisti in attesa di utilizzo, Maggioni in sette anni ha ricoperto il ruolo politico di presidente della Rai (dal 2015 al 2018), di amministratore delegato di Rai com (dal 2019 al 2020) per poi tornare alla conduzione del programma settimanale Settestorie, dagli ascolti non certo da record.

Una giustificazione non è nemmeno di tipo strettamente politico, come dal vecchio manuale della lottizzazione che, nella più lineare prima repubblica, consegnava Rai1 alla Democrazia cristiana, Rai2 ai socialisti e Rai3 al Partito comunista.

Oggi, se certamente c’era la volontà di sostituire un direttore che era stato espresso dal Movimento 5 stelle, Maggioni non è identificabile in modo diretto con uno schieramento partitico ma più con un’area di influenza: ottimi rapporti in Vaticano, strette frequentazioni con il mondo economico e “atlantico”, legato al suo passato di giornalista embedded con l’esercito americano.

Tutta politica?

Eppure, la Rai rimane un’azienda pubblica legata alla politica. Dunque l’identikit perfetto di un direttore di quella che rimane ancora la principale finestra informativa degli italiani non può prescindere da questo. «Il perfetto direttore è quello che sa a chi rispondere al telefono, ma soprattutto a chi non rispondere», sintetizza chi di Rai si è occupato per molto tempo.

L’interesse del partito più forte che esprime il nome è quello di avere con il direttore un rapporto privilegiato. Quello del direttore è di parlare invece con più mondi possibili, sia dentro che fuori l’arco costituzionale, così da non pagare in futuro una stretta affiliazione. Tradotto: quella al vertice del Tg1 è una nomina che ha come requisito la perfetta conoscenza degli equilibri di potere. Un potere che, oggi, fa i conti con la crisi della politica.

Ecco allora forse una giustificazione del cambio di vertice: la direzione di Carboni, infatti, è considerata da più fronti «atipica» perché indicata sì dal Movimento Cinque stelle, che però cercava qualcuno fuori dalle logiche del potere standard che influenzava la Rai. La sua è stata una direzione che ha ristrutturato parzialmente i contenuti del Tg, interpretando forse molto più letteralmente di quando la politica del governo Conte 1 avrebbe voluto la regola aurea delle cosiddette “tre p”.

Alla base della scaletta del telegiornale, infatti, ci devono essere: presidenza della Repubblica, presidenza del Consiglio e papato. La seconda di queste, però, sarebbe stata sovra-rappresentata rispetto al ruolo che i partiti avrebbero voluto dare al premier (Conte).

Il Tg1 è l’epicentro

Anche l’attuale cambio di vertice è atipico, ma esattamente in senso opposto. Se nella prima repubblica la nomina rispondeva a una affiliazione che era tanto culturale quanto politica e nella seconda repubblica ha prevalso la volontà dei partiti di indirizzare direttamente i contenuti del tg, oggi il baricentro si sposta altrove. Con una politica debole, il direttore deve rappresentare i mondi e le istituzioni di potere, che influenzano le decisioni del paese. «In Rai si deve annusare l’aria e oggi non ci si può più appoggiare solo alla politica, perché si rischia di non ricevere poi nulla in cambio», spiega uno degli ex direttori della rete.

Eppure, negli anni il peso strategico del telegiornale di Rai1 è progressivamente solo aumentato. Oggi è l’unico vero posto che conta in Rai, mentre «gli altri sono tutti posti satellite», spiega un ex membro del consiglio di amministrazione. Questo per un mix di numeri e di influenza. Numericamente, il Tg1 fa più del doppio degli ascolti degli altri tg Rai, non ha più una vera concorrenza dal Tg5 e il tg di La7 si è assestato al 6 per cento. È rimasto l’unico, dunque l’unico che conta come megafono trasversale, che raggiunge l’alto e il basso, la cosiddetta pancia del paese. Questo si traduce in influenza: tolte le forti connotazioni culturali che distanziavano le tre reti, il Tg1 è diventato ancora più l’epicentro della comunicazione della televisione pubblica.

Che questo sposti ancora gli equilibri politici è incerto, ma ogni partito è ben cosciente di una cosa: forse essere rappresentati bene davanti a telecamere amiche non conta più come un tempo, ma è ancora importante il fatto di non venir rappresentato male. Il meccanismo giornalistico è solido e rodato: su ogni tema si chiedono le dichiarazioni ai singoli rappresentanti politici, poi si aggiusta il tema sulla base di quel che ogni forza è disposta a dire. Con piena coscienza di un fatto: più politica significa minori ascolti, ma è il dazio da pagare per essere il telegiornale del potere. Questa presenza nel piccolo schermo forse non sposta più voti, ma certamente continua a pesare in quella che rimane la finestra sul mondo politico per buona parte dell’opinione pubblica.

Perché questo pezzo del sistema continui a funzionare, dunque, serve più un manager che un giornalista. Una persona che sappia costruire una squadra e che abbia l’orecchio fino per registrare i sussulti non più solo della politica, ma delle varie sfere di influenza che muovono i fili invisibili di una stagione istituzionale anomala come quella di oggi. «È una fase transitoria, ma è sotto gli occhi di tutti», dice chi ha una lunga carriera in Rai. E il governo ha deciso di interpretarla mettendo a capo del Tg che racconterà la prossima elezione al Quirinale una figura per nulla simile al governo tecnico in carica, ma molto simile ai mondi che determineranno i nuovi equilibri politici.

 

© Riproduzione riservata