C’è una congiura dei magistrati contro le politiche dell’immigrazione messe in campo dal governo di Giorgia Meloni? La presidente del Consiglio insiste con questa narrazione, e così ha fatto anche per il rinvio alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, da parte del Tribunale di Bologna, della questione pregiudiziale sul decreto-legge approvato il 21 ottobre scorso.

Con tale decreto l’esecutivo – ridefinendo i paesi di origine sicuri che consentono di seguire la procedura accelerata di asilo, applicabile tra l’altro in Albania – ha reputato come sicuri anche stati in cui ci sono minoranze a rischio di persecuzioni, escludendone solo alcuni che non sono sicuri in certe aree.

Il tribunale ha chiesto alla Corte Ue se i criteri adottati dal governo italiano per valutare la “sicurezza” siano conformi alle direttive in materia. A differenza di quanto dice Meloni, i giudici non stanno invadendo la sfera di competenza dell’esecutivo, ma si limitano a fare il proprio dovere.

Infatti, il ricorso alla Corte di Giustizia è previsto dai trattati Ue ed è finalizzato a ottenere un’interpretazione uniforme della normativa europea. È per questo motivo che le pronunce della Corte sono vincolanti per tutti i giudici di ogni Stato membro.

Le richieste

I giudici di Bologna avrebbero potuto decidere di disapplicare il decreto paesi sicuri per contrasto con i principi affermati dalla Corte nella pronuncia del 4 ottobre scorso sul tema della “sicurezza”. Ma hanno preferito che la Corte stessa fornisse chiarimenti a fronte di «alcune manifeste divergenze» fra autorità nazionali – vale a dire tra esponenti di governo e giudici, e talora anche tra giudici diversi – «tanto in materia di protezione internazionale che in relazione alla gerarchia delle fonti di diritto».

Il tribunale ha formulato due richieste: se per il diritto Ue «la presenza di forme persecutorie o di esposizione a danno grave» riguardanti, ad esempio, «le persone lgbtiqa+, le minoranze etniche o religiose, le donne esposte a violenza di genere o a tratta» escluda la designazione di un paese come sicuro; e se il primato del diritto europeo sulle norme statali comporti sempre l’obbligo per il giudice nazionale di non applicarle anche ove si tratti di «disposizioni di rango primario, quale la legge ordinaria».

Quanto alla prima richiesta, il tribunale di Bologna ha ricordato che la Corte suprema inglese, nel 2015, ha dichiarato l’illegittimità della designazione della Giamaica come paese sicuro a causa della persecuzione delle persone lgbtqia+. Lo stesso ha fatto nel 2021 il Consiglio di Stato francese, e per il medesimo motivo, riguardo a Senegal e Ghana.

Circa la seconda richiesta, il tribunale ha richiamato la consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia in base a cui, in caso di contrasto, «il giudice nazionale ha l’obbligo di applicare la norma europea», purché chiara, precisa e incondizionata, «e di non applicare quella nazionale», anche se è una fonte primaria.

La Germania nazista

Nell’ordinanza di rinvio alla Corte Ue, il tribunale di Bologna ha affermato che, secondo i criteri seguiti dal governo Meloni, tra i paesi sicuri avrebbe potuto essere inserita anche la Germania nazista, che presentava «una condizione di sicurezza invidiabile» per oltre 60 milioni di tedeschi, mentre ebrei, omosessuali, oppositori politici, persone di etnia rom e altri gruppi minoritari erano oggetto di persecuzioni.

Il paradosso, che ha determinato accese reazioni, intendeva sottolineare che per qualificare un paese come sicuro non è rilevante la percentuale di popolazione esposta al rischio di subire danni e vessazioni di vario tipo.

In altre parole, non è giuridicamente fondato sostenere che se persecuzioni sistematiche sono compiute solo verso una minoranza di individui, mentre il resto della collettività vive tranquilla, allora il paese può comunque essere definito come sicuro, come fa l’ultimo decreto-legge.

Il sistema della protezione internazionale è nato proprio per tutelare chi appartiene a gruppi minoritari oggetto di persecuzioni. E la Convenzione di Ginevra è stata sottoscritta (1951) proprio dopo la caduta del regime nazista.

Anziché appuntare l’attenzione sul richiamo alla Germania dell’epoca, inopportuno o meno che sia, sarebbe meglio concentrarsi su norme, precedenti giurisprudenziali e motivazioni in punto di diritto esposte nelle 25 pagine dell’ordinanza del tribunale di Bologna. Ma evidentemente per molti, in particolare esponenti della maggioranza, leggerle con attenzione è più faticoso che fare polemica su una singola frase.

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