Il Partito democratico nato formalmente quindici anni fa, ma inseguito per anni, forse troppi (per alcuni pochi, «più di dieci di ritardo» per Walter Veltroni), ha chiaramente bisogno di un nuovo Lingotto, di un rinnovato slancio culturale, politico e ideale.

L’identità definita nel 2007 era chiara, la sua vocazione altrettanto, l’ambizione molta. Chi dice che il Pd non avesse un chiaro progetto, fosse un amalgama non riuscito, legittimamente non ne condivide gli obiettivi, ma facendolo, implicitamente, ne riconosce la natura che pur critica.

Un patrimonio di partecipazione, idee, passioni, persone, reti sociali, esperienze amministrative e di governo che hanno pochi eguali in Europa. Eppure, i democratici italiani si sono ficcati in un cul de sac. La situazione oggi è drammatica, ma non perduta. Sempre che vogliano provarci, che sappiano farlo, che approfondiscano seriamente le ragioni del malessere del paese e dell’idiosincrasia di larga parta della popolazione nei confronti della sua classe dirigente. 

Il “paese reale”

Il Pd del Lingotto era il coronamento organizzativo dell’unità politica presente nell’Ulivo, e mirava a riformare il paese profondamente, ispirandosi alla tradizione delle socialdemocrazie europee e alle esperienze delle lotte per i diritti civili degli Stati Uniti.
La partecipazione democratica, genuina, sanguigna delle primarie che dal 2005 ha segnato la vita del centrosinistra, come ha ricordato Marco Damilano su Politica, è ormai un segno sbiadito. Pochi funzionari asserragliati, impauriti del proprio destino, qualche illuminato che tenta di condurre avanti le battaglie ideali, in un mare di desolante isolamento sociale e culturale. Altro che cinghie di trasmissione, egemonia culturale, legami forti.

Anche sul piano elettorale i dati sono impietosi, un patrimonio dimezzato in valore assoluto e percentuale, un arroccamento attorno all’Appennino tosco-emiliano, con il sud abbandonato e il nord est ceduto. 
Lo scollamento tra gruppo dirigente democratico e “paese reale”, al netto di nobili eccezioni e volontarismi individuali, è siderale. Distanza culturale, intellettuale, materiale, quasi antropologica. Enrico Letta ha meritoriamente tentato, ma per poco tempo e incidendo non a sufficienza.

La crisi viene da lontano, e non porta lontano se non affrontata. Serve un’operazione senza precedenti. Andrebbe condotta una indagine approfondita, con dati e informazioni da acquisire per la prossima azione politica, e non come mera ricognizione da consegnare agli archivi. Una campagna d’ascolto, di studio, del tenore della Commissione parlamentare sulla miseria in Italia e sui mezzi per combatterla condotta a inizio anni Cinquanta.

Ma il cambiamento non avviene mai solo dall’interno e nemmeno spinto da forze totalmente esogene. Il gruppo dirigente dovrebbe accettare di farsi aiutare, di aprirsi, di ascoltare, capire, cedere posizioni anche solo cinicamente per rimanere un altro po’ in sella. 

È il tempo delle idee, dei volti nuovi ma che abbiano anche qualcosa da dire, da scrivere, da fare, e non solo delle rivendicazioni, delle azioni piuttosto. Una scelta solo d’apparato allungherebbe l’agonia di qualche mese, ma lascerebbe il Pd nelle stesse condizioni in cui si trascina da almeno un lustro. Serve una seconda svolta del Lingotto che riannodi i fili delle radici, le innervi con concime nuovo e rilanci la semina della sinistra di domani. 

Importanti cambiamenti di postura, di analisi, di prospettiva, senza però rinnegare quanto di buono è stato fatto. Non si riparte mai da zero. Il candidato ideale, o meglio con maggiori prospettive di successo per guidare questa fase, dovrebbe essere pertanto munito di esperienza nel partito, ma con ampi margini di libertà organizzativa e intellettuale. Un profilo semi-centrale: non troppo legato alla classe dirigente corrente, ma nemmeno totalmente esterno. 

Congedandosi dalla fase di collaborazione con la Democrazia cristiana – in quella che fu definita la seconda svolta di Salerno – Enrico Berlinguer ha detto parole chiave sull’urgenza del dire e del fare da parte del Pci: «O diciamo qualcosa o è meglio non dire niente. Io penso che oggi si debba dire qualcosa di nuovo e in poche ore. Perché c’è grande smarrimento che si può riversare anche contro di noi. Non è ancora contro di noi, ma potrebbe se non ci distinguiamo anche con la proposta politica». Il tempo è quasi finito. 


 

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