I circoli del Pd hanno eletto il loro segretario e, come da previsioni pressoché unanimi, hanno eletto Stefano Bonaccini. Il presidente della regione Emilia-Romagna ha preso il 52,87 per cento e se si guarda alla tradizione post Veltroni (2007), l’unico segretario che nei gazebo ha vinto diminuendo la sua percentuale è Pier Luigi Bersani nel 2009 (dal 55,1 per cento degli iscritti al 53,2).Tutti gli altri hanno guadagnato dal voto aperto ai simpatizzanti: così Matteo Renzi nel 2013 (dal 45,34 al 67,5), e così anche lui suo bis del 2017 (dal 66,73 al 69,17); e così Nicola Zingaretti (dal 47,38 al 66). Non è mai successo che il segretario votato dai tesserati non fosse poi ufficialmente incoronato dai simpatizzanti. E di un ribaltone nei gazebo non c’è mai stato neanche il sentore.

Ma la tornata del prossimo 26 febbraio si presenta diversa, e con un minimo di incognite in più. Ai circoli Elly Schlein ha preso il 34,8 per cento, dunque 18 punti di distanza dal vincitore. Ma stavolta, visto i numeri bassi dell’affluenza rispetto ai precedenti (151.530 votanti), questi diciotto punti pesano poco più 27mila voti. Bonaccini è arrivato a 79.787 e lei a 52.637. Il distacco non è così forte da non poter essere colmato facendo il pieno in alcune grandi città, che sono quelle in cui vince il voto di opinione che più somiglia al voto nei gazebo. E nelle città Schlein è già andata bene: da ultimo è andata bene a Milano, dove ha vinto di un pugno di voti, ma è andata molto bene a Roma (44,6 contro 38 di Bonaccini) e in provincia e a Rieti. E prima a Napoli, a Rovigo, Lecce, Genova, L’Aquila, Venezia, Catania, La Spezia, Verona, Siena, Pisa. È questo a preoccupare, pur moderatamente, i sostenitori di Bonaccini, che comunque contano su un sostegno capillare nelle regioni in cui il Pd è alla guida di comandanti pro Bonaccini: oltre l’Emilia-Romagna, la Toscana di Eugenio Giani, la Puglia di Michele Emiliano e la Campania di Vincenzo De Luca.

C’è poi da mettere in conto anche i voti dei due esclusi: i 12.008 di Gianni Cuperlo (7,9 per cento, nel 2013 aveva preso il 39 fra gli iscritti e il 18 fra gli elettori) e i 6.475 di Paola De Micheli (4,29). De Micheli è orientata a convergere su Bonaccini. L’altro deciderà stasera con i suoi. Il suo approdo naturale sembrerebbe Schlein, ma la scelta non è scontata.

Ansia da affluenza

Chiunque vinca, non avrà una vittoria piena se l’affluenza resterà sotto il milione. Già quella dei circoli procede verso il basso, in parallelo al numero delle tessere di partito. Stavolta, dicevamo prima, i votanti sono stati 151.530; nel 2019 alle primarie di Zingaretti erano stati 1.600.000 partecipanti, e prima 189 101 iscritti; nel 2017 del secondo Renzi, 1.838.938 voti dopo 266.726 iscritti; nel 2013, con il primo Renzi, alle primarie votarono 2.814.881 e prima 296.645 tesserati; nel 2009 invece ai gazebo che incoronarono Bersani erano andati in 3.067.821 dopo 462.904 iscritti.

Tre milioni e mezzo invece quelli che elessero Walter Veltroni primo segretario Pd nel 2007, ma era veramente un’altra epoca. «I numeri che provengono dalle federazioni provinciali confermano la voglia di partecipazione tra gli iscritti», dice Silvia Roggiani, presidente della Commissione per il Congresso, «Il nostro impegno ora è rivolto alle primarie e a fare in modo che in quella giornata ci sia la più alta partecipazione possibile». Ma si tratta di numeri in irresistibile discesa, da sempre.

Embrassons-nous

«Adesso inizia una nuova partita, si riparte da zero a zero. Il 26 febbraio alle primarie tutte e tutti potranno votare per un partito nuovo e far vincere l’unica candidata, Elly Schlein, che ha la capacità e la credibilità necessarie a cambiarlo», era il messaggio del comitato della deputata. Ieri, in attesa del confronto tv su Sky dei due primi eletti al congresso interno, i comitati si sono affrontati a suon di contestazioni reciproche, come da copione succederà fino all’apertura dei gazebo. Ma la verità è chiara entrambi gli opposti dirigenti, almeno quelli del Pd: chiunque vinca dovrà cercare una forma di appoggio dello sconfitto, o della sconfitta per evitare contraccolpi al partito. Lo sa bene Stefano Bonaccini, che ha già dichiarato che se mancherà l’elezione «darà una mano»; in questo caso dovrebbe essere una grossa mano, perché l’area Base riformista faticherebbe a restare in un Pd a torsione radicale qual è quello che Schlein prefigura. Ma questa è una probabilità molto remota.

Più probabile lo scenario opposto: quello in cui Bonaccini vince e chiede una collaborazione vera a Elly Schlein per non disperdere la ventata di nuove entrate del Pd, che poi è l’unica novità di questo congresso. Bonaccini ha già spiegato che lo farà. Deve, se non vuole regalare elettori e forse anche dirigenti ai Cinque stelle. Deve, per evitare che dai gruppi parlamentari arrivi il controcanto alla linea del partito, come spesso successo nella storia del Pd. Ma deve soprattutto se vuole aiutare Schlein a restare la leader dell’area di sinistra, cosa non scontata visto lo schieramento di dirigenti che la sostiene, e che avrà voglia di riprendersi un ruolo dopo le primarie. E che non promette alcun «embrassons-nous» dopo il voto. Lo si è visto già nelle polemiche dei giorni scorsi con Bonaccini, per esempio da parte di Peppe Provenzano e Andrea Orlando a proposito del giudizio sulla premier Giorgia Meloni.

© Riproduzione riservata