Elly Schlein arriva in ritardo alla riunione di direzione dove lancia la seconda «estate militante» del suo partito perché in mattinata è stata alla Cassazione, a Roma, a mettere anche la sua firma sul quesito per l’abrogazione della legge sull’autonomia differenziata. Per la foto del comitato serve il grandangolo: trentaquattro firmatari, da Maurizio Landini, segretario della Cgil, a Gianfranco Pagliarulo, presidente dell’Anpi, c’è anche Maurizio Acerbo del Prc, il prestigioso pensatore Raniero La Valle, che si è candidato con Michele Santoro i costituzionalisti Massimo Villone e Gaetano Azzariti e i segretari dell’opposizione, tutti tranne Carlo Calenda. C’è Maria Elena Boschi, di Italia viva, che scherza con Rosy Bindi. L’ex ministra delle Riforme è contornata dai vecchi detrattori della fu «accozzaglia» definita da Matteo Renzi che affossò la sua riforma costituzionale.

Ma era un’altra èra politica, oggi Renzi è aperturista con il centrosinistra. Il deposito del quesito «è una prima buona notizia di questa giornata», dice Schlein ai suoi. L’altra buona notizia è la vittoria dei laburisti nel Regno Unito. La segretaria, nella relazione, la definisce uno dei «segnali positivi e incoraggianti che ci raccontano spazi di nuovo protagonismo per le forze progressiste». A Keir Starmer manda «un abbraccio per lo straordinario successo e un augurio di buon lavoro». Ma nel suo cuore c’è anche la battaglia campale del Fronte popolare francese contro Marine Le Pen: «La decisione di fare le desistenze è un fatto straordinario che indica consapevolezza davanti alla storia».

Schlein non fa paragoni con il suo lavoro di cucitura del centrosinistra italiano. Giuseppe Conte ha un bel da fare con i suoi e resta cauto. «Non si tratta di erigere insieme un muro contro la destra o, come in Francia, di una convergenza dettata dalla contingenza e circoscritta al secondo turno», puntualizza lei, «il lavoro di tessitura dell’alternativa va fatto sui “per” molto prima che sui contro».

La corrente inglese

Nel Pd oggi ci sono i filoinglesi e i filofrancesi, ovvero i riformisti e l’ala sinistra. Fra i primi c’è il commissario Paolo Gentiloni che ha esultato per la vittoria del Labour «dopo una lunga fase di radicalismo minoritario». In linea con Renzi, peraltro fresco di nomina a consigliere strategico del Tony Blair Institute for Global Change. «Per quattordici anni hanno polemizzato con Blair e hanno voluto la fine del blairismo. E ha vinto la destra», dice, «riprendendo il riformismo hanno vinto, ed è una lezione per la sinistra in tutto il mondo». Per tutto il mondo, tranne che per l’Italia: Iv fa professione di blairismo, ma questo non le ha rialzato il consenso.

La sinistra Pd capisce l’antifona: chi esalta Starmer dice che il Pd vince guardando al centro. Anche se il “centro” al momento non c’è. E poi, è la linea di Schlein? «Non serve a nessuno una discussione politologica sul centrismo. Il Labour è la sinistra britannica, sia quando la dirige Corbyn sia quando la dirige Starmer», ragiona il deputato Arturo Scotto. «Tra l’altro, se confronto i dati, Starmer prende 600mila voti in meno rispetto alla campagna elettorale persa cinque anni fa da Corbyn. Ma allora la destra era unita. Oggi pesano innanzitutto quattordici anni di errori dei conservatori. E pesa la bravura di Starmer. Evitiamo giudizi piegati sulla realtà italiana. Cerchiamo di essere meno provinciali». «Starmer ha vinto, benissimo», applaude anche Nico Stumpo, che però è uomo di numeri, e li snocciola: «Nel 2017 il Labour di Corbyn ha preso quasi 13 milioni di voti, nel 2019 più di 10 milioni, oggi il Labour di Starmer prende 9 milioni e 600mila. La vittoria della sinistra oltre alla propria proposta viene anche dal disastro dei Tory, dall’astensionismo e dalla divisione delle destre».

Il ritorno dell’accozzaglia

«Provinciale» è anche l’aggettivo usato da Peppe Provenzano, responsabile Esteri Pd: «Inseguire modelli è un atteggiamento provinciale. E in passato non ha nemmeno portato fortuna. Ogni paese ha una storia a sé. Quello che emerge è che la destra si può non solo arginare, come speriamo avverrà in Francia. Ma si può battere. In Inghilterra, ma già in Spagna, lo si è fatto, con approcci diversi, ma affrontando la questione sociale. Ho visto letture un po’ precipitose del programma del Labour: insegnanti, stipendi, sanità pubblica, non mi pare un’agenda neoliberale. In ogni caso, non ci serve la corrente inglese o quella francese nel Pd. Serve un’agenda comune contro i nazionalisti. Ma noi in Italia dobbiamo batterli a modo nostro. E la direzione, dopo una tornata elettorale incoraggiante, ha indicato una strada giusta». E ancora «provinciale» è anche per Andrea Orlando «la discussione che rischia di trasformare Starmer in Calenda oggi e la prossima settimana Mélenchon in Conte». Persino Lorenzo Guerini, presidente del Copasir e vera “mente” dei riformisti, frena l’entusiasmo dei suoi che vogliono «fare come Starmer», in realtà per stoppare quelli che vogliono «fare come Glucksmann», il socialista francese leader di Place République o, peggio, «fare come Mélenchon». Quella del Nouveau Front populaire «è una risposta emergenziale che guardiamo con attenzione ma che non possiamo assumere come esempio per l’Italia» perché «un conto è costruire una coalizione contro, tutt’altra sfida una coalizione per il governo». Il riferimento è «alla politica internazionale», leggasi armi all’Ucraina.

Strada ancora lunga dunque per Schlein. Tanto più che ieri ha incassato l’addio (ennesimo, definitivo, chi lo sa) di Calenda. Si è irritato perché sul Tempo alla segretaria viene attribuito un giudizio non lusinghiero su di lui: «Renzi ha un afflato unitario, lui ha capito. Purtroppo Calenda no, è meno politico». Il leader di Azione l’ha presa male: «Un’accozzaglia populista e largamente filoputiniana con una spruzzata di centrino opportunista non serve a nulla. Buona strada».

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