L’ennesimo bagno di realtà per Giancarlo Giorgetti, ben consapevole dell’equilibrismo che bisogna esercitare sui conti pubblici italiani. Ma la relazione dell’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) è stata una doccia gelata per il resto del governo Meloni che accarezza il sogno di una manovra economica a misura di promesse, con l’allargamento dei cordoni della borsa, in primis sulle pensioni. Invece nella migliore delle ipotesi occorrerà accontentarsi dell’esistente. Il bollino è stato apposto.

Pil più basso

L’Upb ha infatti messo in fila i veri numeri, che smontano l’ottimismo dell’esecutivo. A cominciare dalle stime sul Pil. Certo, lo scostamento con i dati del Documento di economia e finanza (Def) non è gigantesco. I numeri del Mef «appaiono all’interno di un accettabile intervallo di valutazione, sebbene si collochino sull’estremo superiore delle stime del panel Upb», si legge nel corposo dossier dell’organo indipendente.

Le distanze, però, ci sono: l’Ufficio parlamentare di bilancio indica una crescita dello 0,8 per cento nel 2024 invece dell’1 per cento individuato dal governo nel Def, e dell’1,1 per cento nel 2025 contro l’1,2 dell’esecutivo. Un differenziale che aumenta sul lungo termine: nel 2026 il ministero dell’Economia stima un incremento del Pil sopra l’1,1, mentre l’Upb si ferma allo 0,8 per cento. Tutto questo nonostante la spinta del Piano di ripresa e resilienza, che potrebbe «indurre un aumento del Pil per quasi tre punti percentuali cumulativamente nel 2026», annota l’ufficio diretto da Lilia Cavallari. Neppure il Pnrr fa volare l’economia italiana negli anni di Meloni al potere.

E con un dato che indebolisce la narrazione di Fratelli d’Italia, secondo cui con la destra al potere l’Italia sarebbe il paese traino in Europa. In realtà: «La crescita media del Pil nel periodo 2020-23 è stata dell’1,1 per cento, lievemente superiore a quella dell’area dell’euro».

Il trend positivo, leggermente sopra agli altri partner europei, è soprattutto merito del governo Draghi. Meloni si è semplicemente posta in scia. E anzi le stime per il futuro indicano uno scivolamento di crescita al di sotto della media in Eurozona.

I tecnici dell’Upb hanno fissato un altro paletto, forse quello più duro da aggirare. Solo per confermare le misure già introdotte, come il taglio al cuneo fiscale, quindi la riduzione delle tasse in busta paga (che costa 10,7 miliardi di euro), serve qualcosa come 20 miliardi di euro. Tra le norme più esose ci sono quelle sulla Zes unica del Mezzogiorno e la nuova Sabatini, che insieme costano 1,7 miliardi di euro.

Le altre, per esempio la riduzione del canone Rai da 90 a 70 euro, sono tutte sotto il miliardo di euro. Fatto sta che, senza intervenire su qualsiasi altro punto, bisogna reperire quasi la stessa quantità di risorse ricavate lo scorso anno. Quando, però, c’è stato il ricorso importante al deficit. Solo che adesso c’è il tappo delle regole europee che richiedono un aggiustamento dei conti pari allo 0,5-0,6 per cento fino a che l’Italia non rientrerà nel range.

Cuneo e pensioni

Un quadro complicato per il governo. «Il tempo della melina è finito e le carte vanno messe in tavola. Se il governo ha una strategia, la discuta con il parlamento e le parti sociali», dice a Domani Antonio Misiani, senatore e mente economica del Pd. «Il rapporto dell’Upb conferma che diventa assai complicato anche solo confermare le misure dell’ultima legge di Bilancio, per non parlare dei fondi aggiuntivi che servirebbero per la sanità, la casa, i trasporti pubblici».

Giorgetti ha comunque promesso che il «must» della prossima manovra sarà la conferma del taglio al cuneo fiscale, quindi i primi 10-11 miliardi di euro saranno collocati su questo capitolo.

Ma, sottolineano dall’Upb, «dovrà essere chiarito se si intende rendere la misura strutturale individuando corrispondenti risorse di copertura». Al momento, insomma, si è fermi alle buone intenzioni. Di sicuro il ministro dell’Economia ha ribadito la linea: stop al «modello Lsd, lassismo, sussidi, debito», come lo ha definito durante la presentazione del rapporto.

In effetti la lista delle brutte notizie per il governo non finisce con la ristrettezza sulla spesa. In particolare, Matteo Salvini, leader della Lega, il partito di Giorgetti, dovrà mettersi l’anima in pace sulla riforma delle pensioni, che pure di recente era stata rilanciata dal sottosegretario al Lavoro, Claudio Durigon, che ha parlato di «quota 41 entro la fine della legislatura». La tesi leghista, già raccontata con l’introduzione a tempo di Quota 100 con il governo Conte, è che la spinta al pensionamento favorisca le assunzioni di giovani, rendendo sostenibile il sistema.

Solo che, come evidenzia l’Upb, «non appare plausibile che misure in questa direzione possano autofinanziarsi nel breve-medio periodo senza pesare sui saldi di bilancio, sottraendo risorse ad altri istituti del sistema di welfare». Per cambiare il meccanismo ci vogliono soldi che non sono in cassa. A meno di non dover tagliare altrove. Perciò «un’eventuale revisione dei requisiti di uscita verso un assetto flessibile dovrebbe accompagnarsi all’applicazione di correttivi per gli assegni».

La traduzione è che serve prudenza per mettere mano al sistema previdenziale senza far saltare i conti. E qui l’appello della presidente dell’Upb Cavallari riecheggia forte: «Servono politiche lungimiranti» perché «occorrerà ottimizzare l’uso di risorse scarse».

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