Mentre alla Camera corre spedita l’Autonomia differenziata, il Senato ha dato il primo via libera al ddl Casellati che introduce nel nostro paese il premierato. Si tratta di una riforma che cambierebbe nei suoi tratti fondamentali la Costituzione e introdurrebbe, tra le altre cose, l’elezione diretta del presidente del Consiglio.

Ma è solo il primo via libera: il testo dovrà passare all’esame della Camera dei deputati e poi, a distanza di almeno tre mesi, dovrà fare un secondo giro in entrambi i rami del parlamento. Con all’orizzonte un referendum più che certo, su cui Giorgia Meloni si giocherà il via libera alla «madre di tutte le riforme», dove altri prima di lei – Silvio Berlusconi e Matteo Renzi – non sono riusciti a cambiare la Costituzione. 

L’elezione diretta del presidente del Consiglio

Il cuore della riforma è l’articolo 5, che prevede «l’elezione diretta del presidente del Consiglio». Il premier dura in carica tutta la legislatura – cinque anni – e per non più di due mandati consecutivi (a meno che nelle precedenti abbia ricoperto l’incarico per un periodo inferiore a sette anni e sei mesi. In questo caso diventerebbero tre).

L’elezione delle Camere e del presidente del Consiglio, come reciterebbe il nuovo articolo 92 della Costituzione, «hanno luogo contestualmente».

La legge elettorale da definire

C’è ancora da capire come avverrà l’elezione diretta del premier, perché il ddl Casellati rimanda il tutto a una successiva legge elettorale. La riforma costituzionalizza il premio di maggioranza, ma non stabilisce né il suo ammontare (dovrebbe essere il 55 per cento dei seggi) e né le soglie da superare per farlo scattare.

Qualora nessuno raggiunga il 50 per cento più uno, sarà un ballottaggio a definirlo, come prevedeva l’Italicum di Renzi? Oppure verrà assegnato a chi raggiunge la maggioranza semplice? 

«La legge – specifica il ddl – disciplina il sistema per l’elezione delle Camere e del presidente del Consiglio, assegnando un premio su base nazionale che garantisca una maggioranza dei seggi in ciascuna delle Camere alle liste e ai candidati collegati al presidente del Consiglio, nel rispetto del principio di rappresentatività e di tutela delle minoranze linguistiche».

Le soluzioni alle crisi di governo

La riforma Casellati prevede tre casi di soluzione di crisi di governo. Nel caso in cui il premier venga sfiduciato da una mozione motivata, il presidente della Repubblica scioglie automaticamente le Camere e si torna alle urne.

Se invece il presidente del Consiglio si dimette (perché, ad esempio, non ottiene i voti su un provvedimento che ritiene essenziale), entro sette giorni può proporre lo scioglimento dei rami del parlamento al capo dello Stato, che è costretto a disporlo.

Infine, qualora il premier non eserciti questa facoltà, o in caso di morte o impedimento, il presidente della Repubblica può indicare un altro nome alla guida del governo. Ma a due condizioni: può farlo per una sola volta nella legislatura, e il nuovo premier deve essere, oltre che già parlamentare, anche della stessa maggioranza che ha appoggiato il primo. 

È la cosiddetta «norma antiribaltone», per evitare coalizioni diverse rispetto a quelle uscite dalle urne (cosa legittima in un sistema parlamentare).

I poteri ridotti del capo dello Stato

Da mesi Meloni continua a ripetere che i poteri del presidente della Repubblica non sarebbero intaccati con la riforma del premierato. Si sbaglia. Perché innanzitutto l’incarico al presidente del Consiglio, oggi facoltà del Quirinale, si ridurrebbe a un atto notarile, perché già indicato dagli elettori.

E poi perché, in caso di crisi di governo, non avrebbe il potere che ora ha nel formare nuovi esecutivi. Tradotto: stop ai governi tecnici guidati da figure non elette dai cittadini.

Gli step successivi

Quello del 18 giugno è il primo dei diversi voti finali che accompagneranno il premierato. Dopo le votazioni sui singoli articoli degli scorsi giorni e delle scorse settimane – prima in commissione, poi in aula – il Senato si è espresso sul testo completo, che poi passerà alla Camera dei deputati, dove inizierà da capo l’esame della riforma.  

Ma non basterà che l’altro ramo del parlamento approvi il ddl così come è uscito dal Senato, perché per le riforme costituzionali l’articolo 138 della Costituzione prevede un meccanismo rafforzato. A tre mesi di distanza minimi dalla prima approvazione a maggioranza assoluta, c’è bisogno di un secondo passaggio, tanto alla Camera quanto al Senato.

Nel caso in cui il ddl non venga approvato da una maggioranza di due terzi – cosa alquanto improbabile – un quinto dei membri di una Camera, 500mila elettori o cinque consigli regionali possono chiedere l’indizione di un referendum popolare, come avvenuto nel 2016 con la riforma Renzi, che si è dimesso dopo la bocciatura degli elettori. Meloni ha già detto che in caso di sconfitta non farà un passo indietro, ma un eventuale no avrebbe comunque conseguenze politiche.

Tutti i governi che non avremmo visto con il premierato

L’effetto principale che il ddl Casellati avrà sui governi è che non ci potranno più essere esecutivi “tecnici”. La storia politica dell’Italia è stata caratterizzata negli ultimi trent’anni dal ricorso da parte del Quirinale a personalità esterne ai partiti (o comunque non parlamentari).

Il punto centrale della riforma del premierato è che non potrà più diventare premier una persona non parlamentare. Se fosse stata in vigore, dei 13 presidenti del Consiglio che si sono succeduti dal 1992 in poi ne avremmo visti solamente tre: Berlusconi, Prodi e Meloni. 

In base al testo non avremmo avuto premier tecnici come Ciampi, Dini, Monti o Draghi. Ma non avremmo visto neanche presidenti politici come Letta, Renzi o Gentiloni.

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