Cosa è successo davvero tra l’istituto di ricerca Spallanzani di Roma, centro di eccellenza sulle malattie infettive, e la Russia di Vladimir Putin? Perché l’Italia, ai tempi dei governi Conte, si è prestata a una operazione di politica sanitaria e propaganda gestita direttamente dal Cremlino? Quali interessi c’erano in gioco? Nell’inchiesta di Andrea Casadio ecco finalmente le risposte.


Il Centro Nazionale di Ricerca Epidemiologica e Microbiologica Gamaleya di Mosca fu fondato nel 1891. All’inizio era proprietà di privati, ma dopo la rivoluzione bolscevica passò sotto il controllo dello Stato. Deve il suo nome a Nikolay Gamaleya, un medico che fece il suo apprendistato sotto Louis Pasteur e poi guidò la campagna per vaccinare in massa i cittadini dell’ex Unione Sovietica contro il vaiolo.

La sua sede ha un aspetto piuttosto anonimo, assomiglia ad ogni altro ufficio statale di Mosca, ed è costituito da una serie di palazzi a due o tre piani, circondati da un muro di mattoni e a cui si accede attraverso una pesante porta di metallo.

Dentro a quei palazzi, a partire da marzo 2020 un team di scienziati guidati dal dottor Denis Logunov, un microbiologo di 43 anni di età, corpulento e con una gran barba lunga, lavora allo sviluppo del nuovo vaccino russo contro il Covid, chiamato Sputnik V.

Il legame con Putin

Il nome Sputnik V, dove V sta per vaccino, è un parto della mente fertile di Kiril Dmitriev, direttore del Fondo Russo di Investimento Diretto (Rdif), il fondo sovrano che è il principale finanziatore del vaccino. Il nome evoca quello del primo satellite della storia, che i russi lanciarono nel 1957, battendo gli americani. «Lo Sputnik V sarà il primo vaccino contro il Covid al mondo», aveva detto Dmitriev. «La Russia arriverà prima, come sempre». 

Dmitriev è un banchiere potente e con molte amicizie importanti. Ha studiato a Stanford e ad Harvard, negli Usa, e ha lavorato alla McKinsey e alla Goldman Sachs prima di iniziare una fruttuosa carriera di finanziere in Russia.

La moglie di Dmitriev, Natalia Popova, è la vicedirettrice di Innopraktika, un istituto scientifico che ha finanziato con di più di 1 miliardo e mezzo di dollari la costruzione di un centro tecnologico legato alla Università di Mosca.

A capo di Innopraktika sta Katerina Tikhonova, la seconda figlia del presidente Putin, che lui ha avuto dalla prima moglie e che è la migliore amica della Popova, sua compagna d’università.

Quando Logunov e i suoi colleghi del Gamaleya devono decidere che tipo di vaccino produrre, non hanno dubbi. Nell’istituto si sono specializzati nello sviluppo di vaccini a cosiddetto vettore virale, che cioè utilizzano virus inattivati come vettori, per inoculare materiale genetico all’interno delle cellule umane, e stimolare così una risposta immunitaria.

A partire dagli anni Novanta, hanno cominciato ad utilizzare virus inattivati come vettori, per inoculare materiale genetico all’interno delle cellule umane, e stimolare così una risposta immunitaria.

Nel 2014, durante l’epidemia di Ebola in Africa, Logunov e i ricercatori dell’Istituto avevano creato un vaccino contro la malattia usando una forma modificata dell’adenovirus umano che causa il comune raffreddore, nel quale avevano inserito un gene del virus dell’Ebola: però, non aveva avuto troppo successo. Per generare il vaccino contro il coronavirus Luganov e il suo team utilizzano lo stesso metodo.

Gli interessi russi sullo Spallanzani

Alexander Zemlianichenko Jr/ Russian Direct Investment Fund via AP, File

A marzo 2020, gli scienziati che nel mondo stavano studiando il Covid-19 avevano già sequenziato l’intero genoma del SARS-CoV-2 e avevano dimostrato che la sua proteina in grado di stimolare la migliore risposta immunitaria era la proteina spike, quella che il virus utilizza per attaccarsi alle cellule umane e poi infettarle. Così, contro il coronavirus Logunov e i suoi colleghi decidono di creare un vaccino a vettore virale in due dosi: la prima contiene un adenovirus umano di tipo 26, che normalmente causa una rara forma di raffreddore, e la seconda, che ha lo scopo di indurre un’immunità di lunga durata attivando le cellule T, un adenovirus umano di tipo 5, entrambi modificati e contenenti il gene per la proteina spike del coronavirus.

«Solo se hai il virus isolato e mantenuto in colture cellulari come ha fatto lei poi riesci ad avere il materiale biologico per poter sviluppare e testare i vaccini e anche farmaci in vitro», dico a Maria Capobianchi, la virologa dell’Istituto Spallanzani che per prima ha isolato il coronavirus in Italia e lo ha messo in coltura, ora in pensione.

Lei annuisce.

«Ho come l’impressione che i russi volessero mettere le mani su questo materiale biologico fondamentale. Perché se io ho la sequenza di gene ci metto poco a costruire in laboratorio un adenovirus che contenga il gene della proteina spike del coronavirus per produrre il vaccino: per prima cosa devo avere cellule in coltura infettate dal SARS-CoV-2, dalle quali isolo l’Rna del gene spike del coronavirus; poi trasformo quell’Rna in Dna che inserisco dentro al genoma dell’adenovirus; e poi, una volta ottenuto il vaccino, lo devo testare prima di tutto in vitro, e a quel punto mi servono di nuovo le colture virali: giusto?», le chiedo.

«Corretto», mi risponde lei.

«Lei non avrebbe mai messo a disposizione il virus da lei isolato», ribatto.

«Abbiamo messo a disposizione della comunità scientifica le sequenze e i ceppi del virus. Su richiesta, con motivazione scientifica, è stato dato per studiarlo, ovviamente a chi ce li ha chiesti in maniera trasparente e regolamentata», replica lei.

Chiedo alla dottoressa Capobianchi: «Allora la domanda è: ma i russi hanno testato il loro vaccino ad adenovirus utilizzando le colture col coronavirus isolato da lei dal suo team?»

Lei resta in silenzio. Che io interpreto così: «Sì, ma non gliele ho date io».

Chi ha aiutato i russi?

Allora, chi ha passato il nostro prezioso virus ai russi? Provo a domandarlo a uno scienziato che conosce bene la vicenda e che preferisce restare anonimo. «Vladimir Gutschin, scienziato del Gamaleya, ha raccontato che fino a metà marzo loro non erano riusciti a isolare il virus e non sapevano come coltivarlo». Invece i nostri scienziati allo Spallanzani l’avevano isolato e messo in coltura da inizio febbraio: «Qualcuno ha insegnato ai russi come fare, o gli ha passato di nascosto il virus?», gli chiedo.

«Lui mi risponde: “Temo di sì. Ma di sicuro non quelli che hanno isolato il virus, ci metto la mano su fuoco». 

Perché è essenziale avere il virus in coltura? Quando tu produci un vaccino contro un virus, per prima cosa lo devi inoculare in animali da esperimento, per esempio ratti, poi dal sangue di quegli animali estrai gli anticorpi indotti dal vaccino, e vedi se questi riescono a impedire che il virus infetti le cellule in coltura.

Solo se il vaccino induce anticorpi in grado di inibire l’infezione delle cellule in coltura da parte del virus, che in gergo vengono definiti anticorpi neutralizzanti, allora puoi passare agli stadi successivi della sperimentazione, e testare il vaccino anche sull’uomo.

In ogni caso, a partire da marzo 2020 gli scienziati dello Gamaleya lavorano febbrilmente allo sviluppo del vaccino Sputnik V, in brevissimo tempo ne producono una quantità sufficiente e poi iniziano a testarlo sull’uomo.

Parlando con Jacopo Iacoboni de La Stampa, un importante dirigente dello Spallanzani ha confidato che: «A giugno 2020 fui avvicinato da funzionari di Stato russi che gli offrirono parecchi soldi, circa 250 mila euro», ma lui prima ancora di farli finire chiamò i carabinieri, e difatti qualche giorno dopo all’istituto si presentarono due signori dei servizi per parlare con lui.

Cosa volevano i russi? «Probabilmente stavano incontrando difficoltà nello sviluppo del vaccino e gli servivano informazioni su come proseguire gli studi, o peggio altro materiale biologico col quale continuare gli esperimenti, tutte cose che solo lo Spallanzani poteva fornirgli», mi dice la mia fonte.

Intanto, mentre gli scienziati russi si sono ormai lanciati verso la produzione del vaccino, una piccola azienda biotech vicino a Roma chiamata ReiThera si unisce alla gara. Nell’agosto 2020, con il sostegno finanziario del governo italiano, inizia le prime fasi di sperimentazione del suo potenziale vaccino. Il vaccino ReiThera viene sviluppato da un gruppo numeroso di scienziati, del quale fanno parte anche molti ricercatori dell’Istituto Spallanzani, come Giuseppe Ippolito, Maria Capobianchi e Francesco Vaia.

L’azienda prevede di produrre fino a 100 milioni di dosi all'anno. Il vaccino di ReiThera è un vaccino a vettore virale come lo Sputnik: si chiama Grad-Cov2, e anch’esso è basato su un adenovirus, che però è quello del raffreddore del gorilla, in cui è inserito il gene per la proteina spike del SARS-CoV-2.

Nel luglio 2020, l’Aifa autorizza una piccola sperimentazione di fase 1 del vaccino sull’uomo, sostenuta con 8 milioni di euro di finanziamenti pubblici. Ve lo anticipiamo: quella ricerca non approderà a nulla, e il vaccino ReiThera non verrà mai prodotto in larga scala, forse perché a qualcuno non interessava, o forse perché i russi ci hanno battuto sul tempo.

I dubbi sull’annuncio di Putin

Alexei Nikolsky, Sputnik, Kremlin Pool Photo via AP

Difatti, già l’11 agosto 2020, Vladimir Putin, isolato nella sua residenza presidenziale nelle foreste poco fuori Mosca, tiene una videoconferenza con il suo gabinetto di governo. Quella video conferenza poi verrà trasmessa con grande risalto sui telegiornali di tutte le reti russe.

«Stamattina per la prima volta al mondo abbiamo registrato un vaccino contro la nuova infezione da coronavirus», annuncia vittoriosamente. In realtà, è stato approvato solo dallo stesso ministero della Salute russo.

«Il vaccino è stato chiamato Sputnik V, è molto efficace, aiuta a sviluppare l’immunità, ed ha superato tutti i trial necessari. Mia figlia ha già ricevuto il vaccino». Poi, rivela che il vaccino è già stato inoculato a medici e personale sanitario, e annuncia che è già iniziata la fase 3 della sperimentazione, cioè la somministrazione a un campione di qualche migliaio di persone.

L’Organizzazione mondiale della sanità e tutti i membri della comunità scientifica mondiale sono perplessi: com’è possibile che in soli quattro mesi i russi abbiano prodotto un vaccino e abbiano già iniziato a testarlo sull’uomo? Quasi tutti pensano che abbiano velocizzato o addirittura saltato molte fasi intermedie della sperimentazione. «Serve una rigorosa revisione dei dati», afferma l’Oms, che però i russi non riveleranno mai.

Un solo mese dopo, a settembre 2020, gli scienziati russi completano una prima fase della sperimentazione sull’uomo, e pubblicano sulla prestigiosa rivista scientifica Lancet un articolo dal titolo “Sicurezza e immunogenicità di un vaccino a vettore virale contro il COVID-19”. Però, qualcuno sente puzza di bruciato.

Una trentina di scienziati prestigiosi scrivono una lettera alla rivista in cui avanzano critiche serie: il vaccino era stato sperimentato su un numero troppo ridotto di individui, solo 38; inoltre, i partecipanti sembravano presentare valori identici per variabili diverse (per esempio, i volontari avevano esattamente lo stesso livello di anticorpi a 21 e a 28 giorni dal vaccino, cosa più unica che rara), e altri dati mostravano pattern stranamente simili in gruppi diversi di partecipanti. Insomma, più o meno apertamente accusano i russi di avere barato. Gli scienziati russi rispondono: «Forniremo i dati dei singoli partecipanti su richiesta e li renderemo pubblici e condivisibili su una piattaforma online sicura». Ma non lo hanno fatto mai.

Passa qualche tempo, e il 2 febbraio 2021, sempre su Lancet, gli scienziati russi pubblicano un secondo articolo dal titolo «Sicurezza e immunogenicità di un vaccino a vettore virale contro il COVID-19: analisi ad interim di uno studio di fase III».

Stavolta lo studio è molto più ampio, e condotto su circa 22mila adulti. Però anche in questo caso i risultati sono controversi. Gli scienziati sostengono che lo Sputnik ha un’efficacia di oltre il 90 per cento, ma non dicono quanti e quali eventi avversi si siano verificati. Si limitano a scrivere: «Poiché gli eventi avversi gravi sono stati pochi, i dati completi su questi saranno forniti in una pubblicazione successiva». Che non è arrivata mai.

Ancora una volta diversi scienziati rilevano che l’articolo è pieno di incongruenze ed errori. Al momento della pubblicazione, nessuna delle principali autorità di regolamentazione mondiali sui vaccini - né l’americana Fda, né l’europea Ema - ha ricevuto una richiesta di approvazione da parte dei russi. L’Ema ha iniziato a esaminare la domanda per lo Sputnik solo il 4 marzo 2021, e l’autorizzazione ad oggi non è ancora arrivata, evidentemente perché i dati non convincono.

Gli scienziati russi sono anche stati sfortunati. A partire dal marzo 2021, si scopre che diversi individui a cui era stato inoculato il vaccino Astrazeneca, un vaccino a vettore virale costituito da un adenovirus di scimpanzè modificato, contenente il gene per la proteina Spike del SARS-CoV-2, molto simile allo Sputnik - hanno sviluppato una trombosi che in qualche caso li ha portati alla morte, causata proprio dal vaccino. Da quel momento in poi, le somministrazioni – e le vendite - del vaccino Astrazeneca crollano.

Indagini successive hanno dimostrato che tutti i vaccini a vettore virale, e con ogni probabilità anche lo Sputnik V, possono provocare trombosi che, seppure molto rare, possono essere fatali. E per questo quasi tutti, almeno nei paesi occidentali, preferiscono farsi inoculare i vaccini a Rna, che sono figli di una tecnologia modernissima, sviluppata negli anni 2000, e che non danno effetti collaterali gravi; mentre i vaccini a vettore virale, come lo Sputnik, che sono stati prodotti a partire dagli anni ‘90 del secolo scorso e danno effetti avversi gravi con maggiore frequenza, non li vuole più nessuno.

Quindi, gli scienziati russi hanno messo in produzione un vaccino che dal punto di vista tecnologico è nato vecchio, è più pericoloso dei vaccini moderni a Rna, e difficilmente verrà acquistato dai paesi occidentali, in Europa e negli Usa.

Tuttavia, la Russia potrà vendere il suo vaccino Sputnik a tutti quei paesi amici del Cremlino – India, Pakistan, Iran, Argentina, Venezuela, Messico, Ungheria eccetera – che costituiscono un mercato potenziale di qualche miliardo di persone. Insomma, anche se è superato, il vaccino Sputnik V resta un business di proporzioni colossali.

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