Un partito anti sistema che ha segnato la storia politica dell’Italia per quaranta anni. La Lega autonomista lombarda nata il 12 aprile del 1984, primo abbozzo di ciò che oggi viene nominalmente definito come Lega per Salvini premier ma che è ancora solidamente ancorato al Settentrione, ha rappresentato uno spartiacque politico ed elettorale.

Una forza eversiva che in più occasioni ha minacciato deliberatamente l’unità nazionale, scagliandosi contro la Costituzione. Non solo agendo da forza anti sistema e antipartitica.

La Lega ha sistematicamente minato la legittimità del regime cui si oppone, ma ha anche reiteratamente palesato la volontà non tanto di cambiare il governo, ma l’intero sistema, se solo avesse potuto. La Lega si è prodigata in questa direzione sin dagli albori, politicizzando la (presunta) frattura tra Nord e Sud. Gli strali contro «Roma ladrona» non erano solo un legittimo scontento rispetto alle politiche nazionali, quanto un indiretto e malcelato attacco allo stato. Alle sue articolazioni, certo, ma soprattutto a quanto esso simbolicamente rappresenta.

Una lettura completamente opposta, quella leghista, che individua nelle strutture statuali l’antitesi del modello politico del partito, slegato dagli obblighi della comunità nazionale. Ne seguirono intemerate contro i prefetti, le forze di polizia, la squadra di calcio azzurra, ma soprattutto rispetto alla tassazione.

Il cuore della questione secessionista e oggi autonomista delle camicie verdi: una sbilenca interpretazione del motto “No tassazione senza rappresentanza”. Mettere in discussione lo stato e quindi l’Italia partendo dalle basi della convivenza e poi del welfare, quella che Jürgen Habermas ha definito una solidarietà coatta.

In principio fu Bossi

La Lega autonomista lombarda, fondata nel 1984 da Umberto Bossi, come la galassia di altre sigle e organizzazioni nordiste ha posto al cuore dell’azione politica l’antinomia con il Centro. La questione “nazionalista” nella Lega nord è il punto dirimente.

Le altre tematiche sono quasi accessorie, e comunque relegate in secondo piano o delegate ad azioni occasionali, di fase, tattiche, per riadattarsi al contesto mutato, ma nel segno della continuità: abbattere lo stato nazionale.

Se non si capisce questo punto il rischio è di inseguire la cronaca della miriade di dichiarazioni, riposizionamenti, acronimi, nomi, alleanze e proclami. Una percezione ben salda anche negli alleati e avversari tanto che un leghista ha ricoperto al massimo la terza carica dello stato proprio per evitare il rischio che un esponente di un partito anti sistema rappresentasse l’unità nazionale.

Un partito carismatico

Le virate politiche, le alleanze mutevoli e le spregiudicate contorsioni politico-programmatiche erano possibili soltanto grazie alla presenza di una leadership carismatica e perciò non discutibile. Sul piano organizzativo la Lega nord era un partito di massa in ragione di una capillare rete di sedi, una cospicua cifra di iscritti e militanti e di una strutturata ideologia.

Il tutto permeato e guidato attraverso una rigida centralizzazione nelle mani del segretario e fondatore. Il dissenso non era contemplato, la competizione delle cariche non possibile, la democrazia interna sostanzialmente inesistente e l’intero processo decisionale saldato nel culto della personalità.

Leadership e contenuti

Questi tratti genetici del partito sono stati congeniali al passaggio di testimone allorché Matteo Salvini ha conquistato la segreteria e ha tentato una nazionalizzazione, tanto farsesca quanto inattuabile stante l’ancoraggio nordista del partito, e perciò risoltasi in una spettacolare volatilità elettorale dovuta alla popolarità rustica del capo, ma rapidamente contrattasi in virtù delle tensioni con il centro nevralgico – il Nord – del partito allorché i “barbari” hanno tentato di andare oltre il sacro Po.

Il fiume italiano per antonomasia ha rappresentato il confine fisico e concettuale, politico ed elettorale, organizzativo e legislativo della Lega. Sindacato o meglio lobby del Nord, il leghismo è stato e rimane un fulgido esempio di nazionalismo regionale. Enfasi su una costruita invenzione della tradizione e della Padania, sulla cui appartenenza però c’è stata tutto sommato poca tensione anche tra i leghisti, appassionati maggiormente ai campanili municipali che ai drappi.

Le adunate sui vari prati delle Prealpi, le ampolle, i riti finto celtici, gli assalti ai campanili, i fucili evocati, le elezioni di parlamenti inesistenti erano tutte operazioni pianificate miranti a rafforzare, o meglio costruire, una nuova identità attraverso il simbolismo. In un coerente e stabile nel tempo quadro di azione contro lo stato nazionale.

Prima il Nord

Lo slogan “Prima gli italiani” servì soltanto quale copertura per le nefandezze sui rimborsi elettorali e per sviare dalla fine politica di Bossi e, quindi, evitare il rischio che l’assenza del padre/padrone recasse lo sfaldamento dell’intera organizzazione come d’abitudine succede ai partiti carismatici.

Il salvagente della generosa militanza leghista ha permesso di sopravvivere al cambio della guardia senza che però esistano garanzie circa la qualità del lignaggio tramandato per via paradinastica. Le per ora flebili contestazioni alla linea politica di Salvini non derivano dalla mostruosa contrazione elettorale, quanto dal tentativo di mutazione genetica portato avanti dal 2017: disperdere il patrimonio del Nord per un’indefinita e inattuabile costruzione di una forza che rappresentasse interessi nazionali. Dalla Repubblica di Venezia al Ponte sullo Stretto, il totem leghista ha subito una mutazione indigesta per i valligiani del Lombardo-Veneto fieramente antimeridionali.

Estrema destra di governo

Sul piano politico-ideologico, la Lega (nord) oltre a essere una forza anti sistema incarna i tratti tipici delle forze di estrema destra. Una pila di letteratura internazionale e comparata va in quella direzione, e non bastano gli strali di rifiuto e rimozione psicologica a modificare un tratto ormai consolidato.

La forza ostentata, il piglio populista, la carica dirompente e dichiaratamente eversiva sono sempre stati i tratti somatici leghisti, solo leggermente affievoliti nei ricordi per l’accento sul colorito e folkloristico tono bossiano, che non per questo sopiva l’impeto anti sistema.

Il declino impetuoso di voti, iscritti e militanti, l’avvicendamento di leadership e di nome del partito, il tramonto del capo fondatore Bossi, le cangianti posizioni su singole politiche non sono riusciti a far cambiare sembianze a un partito il cui asse centrale rimane l’avversione per lo stato nazionale.

La presenza della Lega nord ha plasmato la politica nazionale condizionandone con un forte impatto l’intero sistema politico e partitico. L’alleanza strategica con la destra di Silvio Berlusconi ha segnato un quarto di secolo e consentito che al governo sedesse una forza anti sistema ed eversiva. Il sostegno elettorale costante per la Lega, pur con un andamento ondulatorio, ha rappresentato il disvelamento di una cospicua componente della cultura politica italiana, con tratti autoritari, razzisti, populisti e qualunquisti.

Quarant’anni contro lo stato

Il 12 aprile del 1984 Bossi ha creato una forza politica locale e localista che è diversa dalla Lega nord, dalla Lega di Salvini, da quella di Roberto Maroni, dalla secessione, dal “Prima il nord!”, dalle camicie verdi e dalle ronde padane. Se però guardiamo oltre la forma, la sostanza emerge in linea con il passato. Il rapporto con lo stato e i suoi principi fondativi, le politiche territoriali, la politica estera, la visione dell’Europa, i diritti civili, sociali e individuali, il tutto fa emergere una Lega uguale a sé stessa. Insomma, permane un tratto unico e immutabile.

Il partito più longevo tra quelli rilevanti presenti in parlamento da quarant’anni combatte una battaglia che vede un’incomponibile diade governo/stato: lotta nel primo per abbattere il secondo. Buon compleanno Lega nord.

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