Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti per la Rai conta qualcosa perché possiede le azioni e da lui passa la nomina di Presidente e Amministratore Delegato. A inizio agosto ha detto che volendo “privatizzare la Rai” bisogna rovistare nel Testo Unico dei Servizi Media, detto per l’occasione “il coso”, e trovare servizi trasferibili da Rai a privati.

Quindi, occhio all’articolo 59 che elenca le attività che la Rai deve garantire: 1) trasmettere comunicati “di pubblico servizio”; 2) dedicare un tot di ore alla “cultura”; 3) aprirsi a partiti, sindacati e associazioni varie; 4) programmare per l'estero; 5) programmare dove occorre in francese, tedesco, ladino, sloveno; 6) programmare, ma virtuosamente, per i minori; 7) tenere aggiornati e in ordine gli archivi; 8) reinvestire il 15 per cento dei ricavi in produzioni europee; 9) limitare la pubblicità a un quinto di quella dei privati; 10) dislocare redazioni in ogni singola regione. Da un punto di vista meramente operativo, valutazione dell’interesse pubblico a parte e di cui peraltro “il coso” non offre alcun criterio, non c’è nulla che non sia, in linea tecnica, trasferibile ai privati con tanto di adeguato ristoro finanziario.

Ma la Rai concreta non è la semplice somma dei suoi obblighi minimi. Fa anche molto intrattenimento e mette in scena da cinquant’anni il festival giornaliero dei telegiornali lottizzati, che pur dispersivo, pleonastico, fintamente pluralistico e parzialissimo è, comunque, un arredo del comunicare quotidiano. Insomma, anche se grazie ai suoi vizi, la Rai occupa il paesaggio mediatico. Privatizzarla sparpagliandola a pezzetti ne comporterebbe dalla sera alla mattina la scomparsa con tutta l’aria di un colpo di stato (o di testa) alla faccia della libertà dei media.

Tuttavia è anche vero che il mondo delle Rai (per non dire dei privati) è cresciuto rachitico nei confini regolatori di uno tato ed è giunto all’orlo del collasso sotto l’assedio e le razzie di ricavi che – grazie a satelliti, rete, smartphone e smart tv – vengono compiute dalle Big Tech di searching, social e streaming, come pure da leggi come quelle che, dal 2015, destinano a imprese mediali private parte del canone di abbonamento Rai pagato dai cittadini.

Si tratta ormai di rifondarsi o scomparire.

Missione e indipendenza

Perfino la prudentissima Unione europea s’è dovuta risolvere, meglio tardi che mai, a istituire il mercato comune di tv, radio stampa e media che supera l’asfissia regolativa dei singoli stati e offre respiro continentale e crescita di scala ad editori e produttori. In particolare, a chi vorrà rifondare di conseguenza il suo servizio pubblico (invece che metterlo in cantina) il regolamento europeo indica (articolo 5) due condizioni imprescindibili: la missione e l’Indipendenza, l’una a garanzia dell’altra come le due arcate di un ponte.

La missione è concettualmente una visione strategica. L’esatto opposto di una lista di obbligazioni varie. E sarebbe vuota chiacchiera se non s’accompagnasse alla indipendenza dell’azienda. Non è un caso che finora nelle migliaia di parole che regolano i servizi pubblici di Italia, Francia, Germania, Spagna (per stare ai paesi più popolosi) il termine “indipendenza” o “indipendente” compaia un paio di volte, ma appeso al nulla oppure come ossimoro (l’indipendenza suggerita come virtù del lottizzato). Per contro – nelle carte della Bbc – «indipendente» ed «indipendenza» compaiono trenta volte e quasi sempre per sottolineare lo status dell’azienda e il suo potere dialettico, insieme a procedure di nomina che paiono coerenti con il fine.

Insomma, in ogni paese Ue, entro l’estate prossima, le maggioranze e le opposizioni che attraverso i successivi governi si sono date il cambio (e gli fa onore) nello scrivere ed approvare il regolamento tra Bruxelles e Strasburgo, dovrebbero a dispetto d’ogni scetticismo, seppellire le pratiche di comando sul servizio pubblico. Un’occasione formidabile per un tema unificante, perché non riusciamo a immaginare chi avrebbe mai la faccia di sostenere che, a costo di uscire dalla Ue, dovremmo tenerci una Rai dipendente, ricattabile e pagata dal contribuente.

Qui sta, rispetto alla storia dei servizi pubblici nei 27 stati Ue, il radicale punto di novità che può volgerli da cadenti ancelle “di servizio” a soggetti “di responsabilità pubblica”, dinamici e primari. Mentre gli entusiasmi privatizzatori si calmeranno leggendo la numero 10 delle premesse interpretative in cui il Regolamento Ue precisa che il concetto di servizio pubblico non include «le imprese private del settore dei media che hanno accettato di svolgere, in quanto parte limitata delle loro attività, determinati compiti specifici di interesse generale dietro pagamento».

Proposte

Ciò premesso, se si pensa che un servizio pubblico nazionale sia essenziale e che possa realmente affermarsi intrecciando missione e Indipendenza (la prima formulata dallo stato pagatore, la seconda adeguatamente garantita) è necessario anche lanciarsi in proposte sui contenuti della prima e le garanzie della seconda. Azzardiamo alcuni spunti

Missione

Quanto alla Missione, è attuale ed evidente che essa debba consistere nel: 1) creare un attendibile punto fermo in mezzo alla infodemia disinformativa; 2) inserirsi nella circolazione internazionale dei prodotti mediali d’ogni genere; 3) focalizzare il Servizio Interno e Internazionale sui quattro/cinque versanti geopolitici con cui l’Italia guarda se stessa e si commisura al mondo circostante.

Indipendenza

Quanto all’Indipendenza, è essenziale che mai più la Politica abbia l’occasione di calibrare la spartizione degli organi dirigenti. Da qui la necessità che le nomine nel consiglio di amministrazione siano: a) sfasate e da parte di: b) fonti di nomina (sperabilmente monocratiche) accortamente assortite a partire dall’articolo 114 della Costituzione (che indica province, città metropolitane, regioni e stato come le istituzioni che formano la repubblica) con: c) durate di mandato che non scadano contemporaneamente fra loro e ciascuna insieme alla fonte nominante, nonché, aggiungeremmo: d) la prova del fuoco dell’audizione pubblica da parte di un apposito comitato parlamentare, per incentivare le fonti di nomina a designare persone culturalmente e tecnicamente adeguate e capaci di reggere il pubblico confronto (nel campo della comunicazione non è poco).

Controllore e garante di sistema

Uno sguardo meriterebbe anche la figura del controllore e garante di sistema che nel Regno Unito corrisponde all’Office of Communications, dotato di poteri regolativi ed ispettivi molto forti. In Italia la funzione è suddivisa fra: a) la Commissione parlamentare di indirizzo e vigilanza quanto agli indirizzi che essa stessa formula; b) l’Agcom (Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni) alla quale è affidato il duplice compito di assicurare la corretta concorrenza degli operatori sul mercato e di tutelare il pluralismo e le libertà fondamentali dei cittadini nel settore delle telecomunicazioni, dell'editoria, dei mezzi di comunicazione di massa e delle poste; il ministero dell’Impresa e del made in Italy che interviene nella elaborazione dei contratti di servizio.

Rispetto a questa distribuzione di compiti l’articolo 5 del regolamento Ue comporta ovviamente il venir meno dei poteri di indirizzo e vigilanza della Commissione parlamentare. In compenso l’Agcom potrebbe, anzi dovrebbe accentuare il ruolo di controllore complessivo del sistema pubblico-privato. Ma qui casca l’asino perché fin dalle origini (1997) il board dell’Agcom è lottizzato fra i partiti in parlamento e se tale restasse la lottizzazione cacciata dalla porta della Rai riapparirebbe alla finestra dell’ente controllore. Quindi ragione vorrebbe che anche il secondo fruisse di una riforma delle procedure e fonti di nomina che lo rendesse per la prima volta strutturalmente indipendente sia dai partiti che dai gruppi di pressione interessati. Riassumendo, un’indipendenza tira l’altra. 

Separazione contabile e organizzativa

Infine, quanto alla garanzia di risorse pianificate e a prova di ricatto c’è poco da legiferare perché basta procedere sul filo del Regolamento Ue, per non incorrere in ricorsi da parte di una Rai che, se davvero indipendente non farebbe sconti nel caso di inadeguatezza rispetto ai costi di missione. Unico punto che ci sentiamo di proporre è la separazione non solo contabile, ma anche organizzativa, cioè di canale o piattaforma, fra: a) le attività finanziate dalle risorse pubbliche e dai proventi commerciali conseguenti (per cessione di proprietà intellettuali e cose simili); b) le attività finanziate da ricavi pubblicitari e da accessi a streaming a pagamento.

Pochi punti, tutt’altro che esaustivi, per buttare il pallone in mezzo al campo. Nel sito www.art5.it si trova il dove e il quando per chi voglia intervenire.

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