Il governo Conte bis assomiglia sempre più a un gioco di Shanghai. Il rimpasto è nell’aria. Tutti i partiti di maggioranza in un senso o nell’altro nelle ultime settimane hanno manifestato la loro non ostilità a un rimescolamento delle carte, salvo non esporsi mai troppo. Insomma, il rischio è che, se si toglie il bastoncino sbagliato tutto l’incastro inizia a ballare e, come nel gioco da tavolo, chi sbaglia perde.

Il primo a uscire sconfitto sarebbe indubbiamente il premier. Giuseppe Conte ha subito l’ultimo avvicinamento da Matteo Renzi, che nei giorni scorsi è tornato a palazzo Chigi dopo l’incontro esplorativo di inizio novembre. Con l’occasione si sarebbero dovuti definire i punti salienti del nuovo patto di maggioranza che dovrebbe portare l’accordo a quattro che sostiene Conte fino al 2023, superando indenne Recovery plan, altre tre leggi di bilancio ed elezioni del presidente della Repubblica.La definizione dei punti del programma va però a rilento, e anche sul Recovery plan la confusione sotto il cielo resta grande. Un’incertezza che crea malumori ai renziani, che non mancano di manifestare il loro scontento soprattutto nei confronti interni. «Non abbiamo avuto ancora nessuna informazione concreta sui piani, non c’è niente», lamentano i parlamentari. «Dell’accelerazione di passo che abbiamo chiesto, dell’organizzazione del piano dei vaccini non sappiamo ancora nulla».

Per premere l’acceleratore, forse, la soluzione potrebbe essere proprio una presenza più numerosa di Italia viva nel governo. Di sicuro c’è che nell’ultimo incontro di Renzi e Conte non si sia parlato soltanto di come approcciare la nuova amministrazione americana di Joe Biden, che l’ex premier conosce bene. Senz’altro prima o poi andrà stabilito l’ordine delle priorità da inserire nelle spese finanziate dai fondi europei, che per i renziani dovranno essere indirizzati innanzitutto a sostenibilità, innovazione e sociale.

Per quanto riguarda i tempi del rimpasto, che potrebbe essere il secondo passo della definizione del piano d’azione per la ripresa, si parla del dopo manovra, quindi gennaio-febbraio (tra l’altro, a inizio febbraio dovrebbe essere il termine per la consegna a Bruxelles del documento definitivo sul Recovery plan, un momento decisamente delicato, insomma).

Due mesi lunghissimi: «Quanta acqua sotto i ponti nel frattempo», dice una fonte di governo. Poi, resta la questione che con un rimpasto «sai da dove cominci ma non sai dove finisci». Se dovessero infatti cambiare troppi tasselli nella squadra di Conte non si potrà prescindere dalla crisi, che comporterebbe la salita del premier al Quirinale per presentare le proprie dimissioni.

Cosa succederebbe dopo, è tutto da vedere: i partiti di maggioranza sono in stallo messicano, quella situazione in cui i personaggi western hanno tutti una pistola puntata sull’altro e una rivolta contro di loro, senza possibilità che la situazione si sblocchi. Mandare Conte a dimettersi significherebbe andare incontro a una prova di fiducia troppo rischiosa per un’alleanza in cui tutti i partner si guardano con sospetto.

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Le linee dello scontro

Perché tutti hanno promesso di alzare la testa se qualcun altro chiederà il rimpasto, ma nessuno vuole passare con l’opinione pubblica come quello che pensa alle poltrone in piena pandemia. Oggi il cerino di chi vuol mettere mano alla squadra è in mano a Renzi, ma venerdì sera Andrea Orlando, vicesegretario del Pd, ha negato di aver mai voluto il rimpasto, quando ancora a metà settembre si spingeva a «non escluderlo», mentre Luigi Di Maio aveva pubblicamente chiesto qualche giorno dopo più Movimento tra i banchi del governo. Mossa e contromossa, insomma.

I dicasteri dati in bilico sono quelli che ritornano ciclicamente: sicuramente quello di Paola De Micheli, subissata da uscite infelici e dalla complicata vicenda delle concessioni, ma anche i posti di Nunzia Catalfo e Stefano Patuanelli non sembrano più tanto sicuri. Entra nel novero degli incerti anche il ministro per i Rapporti col parlamento Federico D’Incà, sempre del Movimento 5 stelle, criticato soprattutto dal Pd per la sua gestione del tavolo per le riforme.

Il Movimento cerca ancora di barcamenarsi in questa situazione di estrema fragilità dell’esecutivo, in cui Di Maio cerca di vestire il ruolo di leader mettendo sul tavolo il fatto che, in parlamento, la maggioranza relativa è ancora dei grillini. Ma oltre a tenere gli occhi sugli alleati, i vertici dovranno dirimere in queste ultime settimane dell’anno un nodo esistenziale: il capo politico Vito Crimi ha annunciato per la settimana a venire il voto sulla sintesi uscita dagli Stati generali. Da lì si dovrebbe passare poi alla discussione delle modifiche allo statuto e del contenuto del programma. Nel frattempo però ci sono da seguire le mosse di Alessandro Di Battista, che, forte dei suoi fedelissimi, potrebbe reagire in maniera decisa se i dirigenti non dovessero inserire le sue richieste tra i quesiti da porre agli iscritti a Rousseau, come da lui richiesto. Per il momento, i critici (4-5 al Senato, una quindicina alla Camera, dicono) restano ancora nel Movimento, ma chissà che, se nel voto su Rousseau non si dovesse parlare di concessioni, conflitti d’interesse e limiti tassativi alla regola dei due mandati, al prossimo appuntamento in aula non possano esserci delle sorprese.

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