Settembre sarà il mese più caldo per Matteo Salvini, vicepremier e ministro delle Infrastrutture. Tra due settimane infatti al processo Open Arms sarà il giorno della requisitoria dei magistrati dell’accusa, che potrebbe essere il preludio a una richiesta di condanna.

Poi saranno i giudici a stabilire se accoglierla o meno. Il leader della Lega sovranista è accusato di sequestro di persona: i fatti risalgono a quando da ministro dell’Interno si dilettava a tenere in ostaggio in mezzo al mare le navi umanitarie delle ong, nel caso specifico della ong spagnola Open Arms con il suo carico di uomini, donne e bambini in fuga da fame e guerre. L’allora capo del Viminale tuonava contro le imbarcazioni impegnate nelle operazioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo. «Porti chiusi», era lo slogan in voga nell’epoca, non troppo lontana, del governo gialloverde, con M5s e Lega al governo del paese.

Ossessionato da questo suo mantra è riuscito a tenere a largo delle coste di Lampedusa 163 migranti per 19 giorni. Venti giorni di follia e cinismo che la storia e la politica, almeno una parte, ha già giudicato con il metro dell’umanità.

Resta da capire se l’accanimento sovranista sulla povera gente, in cerca di un futuro migliore in Europa, oltreché illegittimo dal punto di vista dell’etica configuri pure un reato grave come quello che la procura di Palermo contesta a Salvini, che rischia fino a 15 anni di carcere. Le udienze sono state trasformato nel palcoscenico di uno show di vittimismo e rivendicazione salviniana. Il caso Open Arms è di agosto 2019. Un mese e un anno snodi cruciali nella parabola del Capitano.

Agosto 2019, infatti, è il mese che ha segnato l’inizio del crollo della leadership fugace di Salvini. La crisi del Papeete, il caso Metropol e la trattativa con i russi, le frizioni con Giuseppe Conte. Su questi scogli si sarebbe infranta da lì a poco la corsa rapidissima del capo leghista che invocava pieni poteri per sé e per la Lega sovranista, partito che in quell’anno aveva ormai i tratti definiti del partito personale, fondato su Salvini e su nessun’altro.

In cinque anni sono cambiate moltissime cose. Gli strascichi di quella stagione però restano: il processo Open Arms, per esempio, e la disgregazione della nuova Lega da lui fondata nel 2017, per dare corpo al progetto nazionalista archiviando la stagione federalista della Lega nord, sulla carta ancora esistente ma nei fatti una scatola vuota zeppa di quel debito da 49 milioni con lo stato.

Intanto le voci di un cambio di leadership si sono affievolite e l’unico ostacolo è il passaggio sull’autonomia, che dovrà superare l’eventuale scoglio del referendum. La legge Calderoli ha aiutato Salvini a placare l’anima nordista della Lega (non tutta, in realtà), che fino a prima delle ultime europee avrebbe voluto un cambio di passo se non di leader.

«Metodi da leader debole»

I prossimi mesi del Capitano non saranno comunque facili. Perché se è vero che all’interno le fratture si sono più o meno ricomposte è altrettanto corretto dire che il metodo usato per fermare le fronde “padane” non è piaciuto ai vecchi militanti lombardi e veneti, zoccolo duro del partito fin dai tempi di Umberto Bossi.

Per dirla con le parole di Paolo Grimoldi, bossiano, deputato per 16 anni fino al 2022 e segretario della gloriosa Lega lombarda fino al 2021: «Si stanno eliminando tutte le persone libere e capaci, l’ennesimo segno di debolezza che la Salvini premier non ha futuro, non è più credibile». Lo sfogo di Grimoldi, potente leghista fedele al partito del Nord, proseguiva senza sconti: «Bisogna togliere la scritta “Salvini premier”, basta parlare di Nutella, di marmellata, basta menzogne sulla legge Fornero, basta votare Mattarella, basta ponti dove mancano strade e da mesi l’acqua corrente».

Grimoldi è stato cacciato dalla Lega Salvini premier dopo le elezioni europee. E questo durissimo attacco sferrato sui social è seguito alla notizia che persino Gianna Gancia è finita sotto accusa e rischia di essere espulsa per due interviste anti Salvini. Non è proprio l’ultima arrivata Gancia: storica leghista e moglie peraltro del ministro Roberto Calderoli.

A luglio ha presentato le dimissioni dalla Salvini premier Luca Paolini, segretario storico della Lega nella Marche: «Dal 2019 la segreteria Salvini ha portato alla perdita di oltre 7 milioni di voti e una complessiva perdita di rilevanza politica a tutti i livelli. Con l’espulsione di Grimoldi, viene cacciato l’unico vero competitor al prossimo congresso federale».

Lunedì 26 agosto il vicepremier Matteo Salvini, è tornato, per la Giornata mondiale del cane, sul tema del rapporto con gli animali. Un punto solo apparentemente marginale.

Non solo perché in Italia si contano ormai diciannove milioni di «amici a quattro zampe» i cui padroni (forse il termine è desueto, in caso me ne scuso) possono sempre essere un bacino elettorale da cui attingere, ma anche perché, per altri versi, è un tassello della più vasta campagna nazionalista che ha sconvolto il quadro politico negli ultimi quindici anni.

Più volte i partiti sovranisti a tutte le latitudini hanno intersecato il tema del benessere animale con quello della macellazione rituale, stabilendo una singolare alleanza con le frange animaliste più radicali e con il cosiddetto ecologismo di destra, o addirittura con l’ecofascismo (vedere, Francesca Santolini, Ecofascismo. Estrema destra e ambiente) di chiara matrice neonazista.

A mia memoria, iniziò Geert Wilders nel 2009, con una proposta di legge che passò in una Camera del parlamento olandese per essere poi fermata. Di lì Le Pen e, appunto, Salvini, che dal pratone di Pontida nel 2018, anno del suo apice, urlò che era giunto il momento di occuparsi di chi maltratta gli animali.

Il riferimento era alla macellazione islamica halal, ma finì per includere la macellazione ebraica kasher, visto che i metodi sono molto simili. Non a caso le urla scomposte del leader leghista suscitarono la reazione del rabbino capo di Roma, Riccardo di Segni, che denunciò il proprio timore a mezzo stampa.

Davvero propaganda bizzarra dal momento che la Lega ha sempre chiesto l’estensione della stagione della caccia, considerata in alcuni suoi feudi elettorali un’irrinunciabile tradizione locale. Anche ora giace in commissione Agricoltura una proposta di legge del deputato leghista Francesco Bruzzone definita la “spara-tutto”.

Registro propagandistico

Un’ulteriore prova di come ormai l’azione politica di Salvini non riesca a discostarsi da un registro propagandistico che tenta di sfruttare l’onda emotiva del momento, anche a costo di contraddire continuamente se stesso.

Ereditata una Lega ridotta al 3 per cento dagli scandali che l’avevano travolta, l’ex rampollo di Umberto Bossi, è riuscito nel capolavoro di convertirla a partito nazionale, legandola alla corrente nascente del neo-nazionalismo europeo che aveva come capofila Viktor Orbán.

Non credo che alla base ci fosse chissà quale analisi teorica su un elettorato centrista ormai frustrato e arrabbiato dall’impoverimento imposto dallo spostarsi verso Oriente del manifatturiero.

Lo ha fatto, semplicemente, a suo modo: legittimando i peggiori istinti popolari con anche campagne d’odio feroci orchestrate dall’amico fidato Luca Morisi.

Dopo un’ascesa inarrestabile che ha conosciuto anche i fenomeni di esaltazione del leader di berlusconiana memoria, si è così ritrovato con un consenso del 34 per cento alle europee 2019. Poi, il Papeete.

Da lì, un declino inesorabile che lo ha visto perdere, dalle regionali in Emilia-Romagna in giù, in tutte, dicasi tutte, le tornate elettorali, vedendosi sottrarre anche antiche roccaforti come Verona. Fino all’attuale 8 per cento che alla Lega arriva fisiologicamente da quell’elettorato ostile alle tasse e alla burocrazia, che limita davvero piccola e grande imprenditoria.

Corsa contro vento

Ma non è solo questo. Da tempo Salvini corre contro vento. È proprio il mondo che è girato al contrario rispetto agli anni delle sue vette. L’amore per Vladimir Putin difensore della «razza bianca» si è tramutato in un clamoroso boomerang dopo il febbraio 2022, che ha anche portato allo smembramento di Visegrád isolando ulteriormente Orbán, già espulso dal Ppe.

I temi tradizionalisti a lui cari sono di giorno in giorno superati dal formarsi di una società multiculturale che richiede ben altre risposte rispetto alla nostalgia del piccolo borgo antico. Persino le recenti medaglie olimpiche gli hanno schiaffato in faccia un’Italia opposta alla sua narrazione. Non parliamo dell’immigrazione, che il settore industriale a lui vicino chiede a gran voce per colmare il deficit demografico. Ben presto la destra virerà verso i porti aperti.

La pandemia ha spazzato via le sue idiozie antiscientifiche e si è ritrovato a votare lockdown e Green pass dagli scranni del governo Draghi. Ancora, l’aumento della vita media porterà in modo sempre più esplicito ad affrontare il tema del fine vita in modo serio, azzerando le sue strizzate d’occhio verso l’ala cattolica più tradizionalista.

Insomma, quello di Salvini è un mondo al contrario, che, però, rischia di essergli sottratto dalle mani dalla sua creatura Roberto Vannacci, adattissima figura per crearsi la propria riserva indiana, a cui la Lega, che un elettorato vero ce l’ha, non può ridursi a essere. Di fronte a questa catastrofe politica cosa aspetta il partito a cambiare leader? È come nel calcio: il mondo evolve, non si possono applicare vecchi schemi a realtà nuove.

L’ombra di Savoini e Vannacci

Salvini aveva promesso il congresso prima delle elezioni per Bruxelles: «In autunno si farà». Nessuno però sa davvero ancora quando si terrà. Il leader prende tempo nella speranza che la sua promessa venga dimenticata dai suoi tanti ma silenziosi avversari interni.

Intanto il prossimo obiettivo certo è la prossima Pontida, un tempo autonomista oggi sovranista. Quest’anno sarà il 6 ottobre. La data è indicativa del mutamento genetico della Lega. Il 7 ottobre è l’anniversario della vittoria della Lega Santa a Lepanto nel 1571, la battaglia cioè che portò alla sconfitta dell’impero ottomano. Il cristianesimo contro l’invasione musulmana. E pensare che quando Bossi pensò alla prima Pontida scelse la data del giuramento che portò alla nascita della Lega lombarda contro Federico Barbarossa. Era una Lega secessionista, oggi è quella di Salvini che porterà un nazionalista e patriota come il generale Roberto Vannacci sul pratone di Pontida.

L’anno scorso fu la volta di Marine Le Pen, che di autonomista ha ben poco, anzi è una delle leader nazionaliste pioniere del sovranismo europeo. Un «mondo al contrario», per citare il libro del generale scelto da Salvini per salvare il partito dalla certa débâcle elettorale delle scorse europee. O forse è il caso di dire: una Lega al contrario.

Nelle settimane scorse è ricomparso pure Gianluca Savoini, l’ex portavoce di Salvini, regista della trattativa con i russi all’hotel Metropol per provare a portare a casa un finanziamento del Cremlino. Era scomparso dai radar, l’uomo che fino allo scandalo del 2019 aveva indicato la via da seguire in politica estera alla Lega sovranista. Savoini in un’intervista alla Stampa ha lodato il generalissimo: «Con lui Salvini è più forte». A legare Vannacci e Savoini è anche un visione filorussa comune. Approccio che aveva contagiato il Capitano. «Putin è un grande presidente. E lo dico non perché mi pagano», Salvini, 3 agosto 2019. Si torna sempre lì, a quell’agosto folle di pieni poteri.

Il confronto per ora sotto controllo con Forza Italia sullo Ius scholae rischia di deflagrare per le posizioni nette del leader della Lega vannacciana. E la gestione del ministero delle Infrastrutture finora è stata mediocre. I silenzi sul disastro dei trasporti, che ha sollevato critiche da più parti; l’insistere sul Ponte di Messina, che ha provocato malumori ulteriori nelle sezioni, le poche rimaste, delle regioni settentrionali; la perenne campagna elettorale che prevede interventi su ogni tema quasi mai sulle infrastrutture. Questioni, nel lungo periodo, che potrebbero creare frizioni interne al governo. Senza contare le regionali d’autunno in Liguria.

Salvini, senza Vannacci, potrebbe dover fare i conti con un consenso ai minimi storici. Nel 2019 la Lega conquistò in Liguria, alle europee di quell’anno, il 33 per cento con 251mila voti e il 58 per cento di affluenza. Cinque anni più tardi, 50 per cento di votanti, il partito del Capitano, con Vannacci, ha totalizzato l’8,8 per cento, 55mila voti: ha perso per strada circa 200mila elettori. L’estate di Salvini si è chiusa con uno delle feste di partito più importanti, la Berghem Fest, «semi deserta», dicono i bossiani mostrando foto della serata. Ora inizia un’altra stagione per il Capitano, sempre disseminata di insidie.

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