Nel 44esimo anniversario della strage di Ustica, l’aereo Dc9 inabissatosi al largo dell’isola con a bordo 81 persone che persero la vita, il presidente della Repubblica esprime la vicinanza ai parenti delle vittime e alla loro lotta per la verità. E avverte: «La Repubblica non si stancherà di continuare a cercare e chiedere collaborazione anche ai Paesi amici per ricomporre pienamente quel che avvenne il 27 giugno 1980». Sergio Mattarella sembra tener presente le notizie di stampa tratte dall’inchiesta ancora in corso a Roma, che tirano in ballo la non collaborazione della Francia all’indagine. Il primo a parlarne fu il presidente dell’epoca Sandro Pertini, l’ultimo il presidente emerito della Corte Costituzionale Giuliano Amato, nel settembre scorso in un’intervista a Repubblica («È arrivato il momento di gettare luce su un terribile segreto di Stato. Potrebbe farlo Macron. E potrebbe farlo la Nato»).

Mattarella esprime la posizione dell’Italia di fronte ai paesi e all’alleanza che evidentemente hanno debito di verità con il nostro paese e con la nostra giustizia. «Parole non di circostanza», quelle del «nostro primo rappresentante», ha commentato Matteo Lepore, sindaco di Bologna, città da cui era partito il Dc9, «importanti perché il capo dello stato rappresenta la nazione, le nostre istituzioni civili e anche quelle militari, e in un contesto internazionale».

Un aiuto alla premier

Ancora una volta il presidente parla in difesa dell’Italia, com’è nel suo ruolo. E questa è l’unica spiegazione che viene dal Colle anche su altre parole, quelle filtrate il giorno prima, mercoledì, dal pranzo con la premier e alcuni ministri (Tajani, Giorgetti, Fitto e i sottosegretari Mantovano e Fazzolari), un confronto in vista del Consiglio europeo di ieri e di oggi. Quel «non si può prescindere dall’Italia», rimbalzato fuori da un tavolo tradizionalmente riservatissimo, era all’indirizzo di un altro tavolo, quello europeo. Parole derivanti da una preoccupazione forte per la perdita di ruolo del paese. Non parole di appoggio al governo. Ma tradiscono l’apprensione per l’angolo in cui la premier si è confinata al tavolo del Consiglio. Per ora dal Colle non trapela nessun commento sulle inchieste di Fanpage che hanno “rivelato” rigurgiti di antisemitismo nell’organizzazione giovanile di FdI: ma è chiaro che non possono non avere un’eco in Europa, tanto da costringere, secondo fonti di FdI, la premier a preparare una dichiarazione, forse al ritorno da Bruxelles.

Ma se quella di Mattarella era una difesa del paese, era dunque oggettivamente una «mano al governo»; non richiesta da Giorgia Meloni, che mai avrebbe l’umiltà di chiedere un aiuto al capo dello Stato, la cui figura vive come una fastidiosa tutela e di cui soffre la continua “pedagogia costituzionale” spesso in rotta di collisione con l’incultura costituzionale del governo. Però stavolta le parole di Mattarella sono state un utile biglietto da visita per Bruxelles. Non a caso sono state sottolineate dal ministro Tajani, al prevertice del Ppe, e dal presidente Weber.

A destra qualcuno dunque le ha stiracchiate “pro domo sua”. D’altro canto a sinistra qualcun altro si è invece irritato perché Mattarella, nello stesso giorno, ha firmato la legge sull’autonomia differenziata. In tempi veloci, e senza i rilievi che qualcuno si aspettava; i presidenti di gruppo M5s gli avevano persino chiesto di non firmarla. Ieri il presidente del Veneto Zaia, ultrà del ddl secessionista, lo ha solennemente ringraziato. Morale: che al Colle non sieda il capo dell’opposizione è cosa ovvia – non a destra, non sempre a sinistra – ma in una sola giornata si sono addensati atti e scelte che hanno dimostrato in maniera plastica che è un garante super partes. Un ruolo malvissuto dalla destra che invece via via trasforma le istituzioni in succursali del partito della premier: dalla seconda carica dello Stato che interviene come leader di FdI (vedasi la richiesta di abolizione dei ballottaggi), ai direttori o presidenti di enti pubblici che si trasformano in mazzieri della premier nei talk o nel dibattito, in una confusione di ruoli che ricorda i momenti bui della storia patria. Fino all’Europa, dove la premier spaccia per l’interesse del paese quello del gruppo che presiede, Ecr.

Un aiuto o un taglianastri

Del ruolo del presidente della Repubblica, incarnato peraltro da Mattarella con riconosciuta autorevolezza (non riconosciuta da tutti nel governo, non dalla Lega) la premier oggi si può giovare nel confronti Ue. Ma la domanda è: cosa succederà quando la riforma del premierato renderà il capo dello stato sostanzialmente un taglianastri?

Su questo dal Colle non esce parola, naturalmente. Ma c’è un paradosso in consumazione, nelle ore di confronto difficile con gli altri leader europei: Meloni può contare sul presidente, il cui ruolo però vuole smontare pezzo per pezzo, con la riforma che gli sottrae poteri e con l’elezione diretta del premier. Perché non si tratta “solo” di privarlo del potere di scioglimento delle camere, e di non consentire la nascita di governi tecnici. Il giorno in cui si dovesse arrivare a un “braccio di ferro” su una legge, è chiaro che il premier (la premier) farebbe pesare come un macigno il fatto di essere eletto «dal popolo», contro un presidente eletto “solo” dal parlamento.

In queste ore la premier si è cacciata anche in questa contraddizione: non è in grado di vincere le sfide temerarie che ha lanciato sui tavoli europei e rischia di far retrocedere, con sé, il paese. Può contare sulla difesa del ruolo dell’Italia da parte del presidente; ma è il presidente che lei maltollera per la sua difesa inesorabile dei principi costituzionali; progetta di indebolirne la figura, e così facendo rischia l’autolesionismo.

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