Solo dopo l’efferata uccisione di Giulia Tramontano il governo ha finalmente deciso di occuparsi del tema della violenza contro le donne, nonostante dal suo insediamento ci siano già state decine di femminicidi. Lo strumento prescelto è il disegno di legge (ddl), il cui testo sarà depositato in parlamento e discusso nelle prossime settimane. Anche questo è singolare.

L’esecutivo di Giorgia Meloni ha ritenuto di intervenire con decreto legge sui rave party, eventi sporadici, ma non sui femminicidi, ben più frequenti. Per questi ultimi evidentemente il governo reputa non sussista “necessità e urgenza”. Sarà chiesto alle Camere di esaminare il ddl con procedura prioritaria, ma è palese la differenza rispetto a un decreto-legge, che entra immediatamente in vigore.

Il problema non è solo di “contenitore”, ma anche di contenuto. Il nuovo ddl non imprime una svolta alla tutela delle donne. I numeri dei reati connessi alla violenza di genere sono restati nel tempo molto elevati, nonostante le leggi stringenti che si sono succedute.

Le nuove norme

Alcune delle norme proposte mirano a rafforzare la “prevenzione”, anche se di vera prevenzione non può parlarsi, come si vedrà. L’«ammonimento» da parte del questore – misura già prevista per tutelare le vittime di atti di violenza domestica, cyberbullismo o atti persecutori (stalking) – potrà avvenire pure nel caso dei cosiddetti “reati-spia”, quali ad esempio percosse, revenge porn, violazione di domicilio o danneggiamento, a seguito di segnalazione da parte di persona anche diversa dalla vittima.

La ministra per la Famiglia, Eugenia Roccella, ha definito la misura come “cartellino giallo” all’uomo violento. In caso di reiterazione della condotta, la procedibilità per i relativi reati non è più a querela di parte, ma d’ufficio, e si sancisce l’aggravamento della pena.

La sorveglianza speciale, prevista dal Codice antimafia, potrà essere disposta anche per gli indiziati di gravi reati legati alla violenza contro le donne e alla violenza domestica (tentato omicidio; lesioni personali gravi e gravissime; deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso; violenza sessuale).

La sorveglianza avverrà con modalità di controllo elettroniche, vale a dire attraverso il “braccialetto”, con il consenso del soggetto interessato. Qualora il consenso fosse negato, la durata della misura non potrà esser inferiore a due anni e il soggetto dovrà presentarsi periodicamente all’autorità di pubblica sicurezza.

Inoltre, il tribunale dovrà sempre – e non più in via facoltativa, come finora –imporre agli indiziati di questi reati il divieto di avvicinarsi a determinati luoghi, frequentati abitualmente dalle vittime, e l’obbligo di mantenere una determinata distanza, non inferiore a 500 metri, da tali luoghi e dalle vittime.

A queste norme relative alla fase di prevenzione se ne aggiungono altre che attengono a un momento successivo. Ad esempio, si prevede l’arresto in flagranza differita, disponendo che anche video e foto possano essere utilizzati per far scattare l’immediato arresto nei casi di maltrattamenti in famiglia o stalking; il procuratore della Repubblica avrà l’obbligo di individuare uno o più magistrati addetti all’ufficio che si occupa di violenza contro le donne e domestica, per favorire la specializzazione nei processi su questa materia; in caso di omicidio o tentato omicidio e di altri reati commessi in danno di persona legata da relazione affettiva o di prossimi congiunti, il pubblico ministero dovrà valutare entro 30 giorni l’applicazione delle misure cautelari, e entro ulteriori 30 giorni il giudice dovrà decidere sull’istanza.

Criticità

Le nuove regole perseguono l’intento di rafforzare la tutela delle donne. Ma in Italia – com’è noto da tempo – il problema è passare dalla teoria all’applicazione concreta delle disposizioni. Basti pensare, ad esempio, alla norma della legge cosiddetta Codice rosso in base a cui la donna che denuncia una violenza va ascoltata dal magistrato entro tre giorni, così da valutare nell’immediatezza l’effettiva entità del rischio. Purtroppo questo vincolo temporale viene disatteso: a causa della mancanza di personale per dare seguito alle denunce e, forse, per l’inadeguata preparazione di chi riceve le denunce a cogliere i segnali di pericolo.

A questo riguardo, non si dimentichi che in diverse occasioni la Corte europea dei diritti dell’uomo  si è pronunciata sull’inadeguata protezione offerta dallo stato italiano a donne vittime di violenza, nonostante i progressi fatti dall’Italia nel munirsi di normative in materia. La Corte ha rilevato l’inerzia o il ritardo nella concessione di protezione in favore di donne, nonostante la conoscenza o la possibilità di conoscenza del rischio reale e immediato di reiterazione delle condotte violente.

Dunque, il fatto che oggi siano state rafforzate misure come l’ammonimento, il divieto di avvicinamento o il braccialetto elettronico non comporta in automatico che le cose andranno meglio rispetto al passato. Servono più risorse: non solo rappresentanti delle forze dell’ordine adeguatamente formati e in numero sufficiente a intervenire nei casi critici in maniera immediata, ma pure soggetti che a ogni livello sappiano cogliere i segnali di violenza contro le donne e farvi fronte.

In mancanza, le misure di contrasto alla violenza di genere sono destinate a fallire. Per cui non basta limitarsi a citare i dati provenienti dalla Spagna – ove il braccialetto elettronico a tutela delle donne ha portato, nella comunità autonoma di Madrid, a una diminuzione dei femminicidi pari al 33,33 per cento – per affermare che la misura funzionerà anche qui.

Peraltro, circa l’uso che finora si è fatto in Italia dei braccialetti elettronici manca trasparenza. L’associazione Antigone aveva rivolto al ministero dell’Interno un’istanza di accesso civico, chiedendo di conoscere – tra l’altro – il numero di braccialetti utilizzati per il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, eventuali manomissioni o violazioni della misura. Ma il ministero ha negato le informazioni richieste, accampando motivi di sicurezza pubblica e ordine pubblico.

Il braccialetto segnalerà quando l’indagato si avvicina alla vittima, violando la distanza di 500 metri. Ma il tempo in cui l’uomo violento percorrerà quei 500 metri probabilmente non basterà alle forze dell’ordine per bloccarlo e scongiurare un reato. Inoltre, non sono infrequenti i casi di manomissione dei braccialetti. Insomma, il rischio è che la donna possa sentirsi tutelata attraverso questo dispositivo elettronico, mentre così potrebbe non essere.

Infine, come rileva l’associazione D.i.re soltanto il 28 per cento delle donne accolte dai suoi centri denuncia gli autori di atti di violenza. Senza una segnalazione che attivi la macchina della tutela, i reati più gravi non saranno impediti. Ma per indurre le donne a segnalare servirebbe dare loro più sostegno, e su vari piani.

Non basta una nuova legge

Il ddl ha su misure definite di “prevenzione”, come visto. Ma è una definizione impropria: tali misure intervengono solo quando un qualche atto contro la donna sia già stato posto in essere.

La prevenzione di cui parla la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla violenza contro le donne e la violenza domestica, nota anche come Convenzione di Istanbul, è tutt’altro. Al di là di misure legislative, la vera prevenzione richiede un cambiamento di atteggiamenti e il superamento di stereotipi culturali che favoriscono o giustificano la di violenza contro le donne.

Dunque, servono in via continuativa campagne di sensibilizzazione, programmi educativi, formazione di adeguate figure professionali. Una risposta meramente regolatoria – risposta che in Italia accompagna immancabilmente ogni ondata emotiva – a un problema soprattutto culturale mette a posto la coscienza, ma non lo risolve. Le nuove norme non sarebbero comunque state idonee a salvare Giulia Tramontano: basterebbe questo per valutare la proposta legislativa.

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