Una ragazza di 18 anni con un’anca rotta a Torino. Una di 14 con sei punti in testa a seguito di una manganellata a Roma. Un ragazzo poco più che maggiorenne ancora ricoverato in ospedale, sempre a Torino, per via di un’emorragia cerebrale che non si è ancora riassorbita. Una sedicenne di Milano costretta a siringhe di anti-dolorifico per gli ematomi alle gambe, a Milano.

Venti ragazzi – solo a Torino – andati all’ospedale e usciti di lì con collari, fasciature, lussazioni.  Ed è solo un parte del bollettino dei feriti a seguito della feroce repressione dei cortei degli studenti, nei giorni scorsi, da parte della polizia. Studenti che chiedevano di eliminare l’alternanza scuola-lavoro, che ricordavano la morte del diciottenne Lorenzo Parelli, morto schiacciato da una trave d’acciaio di 150 chili nello stabilimento metalmeccanico Burimec, in provincia di Udine, nel suo ultimo giorno di stage.

Studenti che hanno attraversato due anni difficili tra dad e mancanza di socialità, tagliati fuori dalle grandi urgenze, dalle discussioni politiche e sanitarie, che improvvisamente erano tornati a chiedere, farsi ascoltare, esistere. A sentirsi di nuovo parte di un ingranaggio con un tema adulto e di tutti, un tema così fastidioso- evidentemente - da aver scomodato i manganelli. 

Quello che non torna

Perché una cosa è certa: le analogie nel comportamento della polizia nelle piazze di Torino, Milano, Roma e Napoli non sembrano  essere frutto di una coincidenza, ma il risultato di una decisione preventiva e congiunta, ovvero quella di reprimere sul nascere qualunque tentativo da parte degli studenti di essere più visibili di un sit-in con quattro fiaccole e uno striscione.

Come raccontato dai numerosi video nonché dalle tante testimonianze dei ragazzi, i cortei hanno potuto percorrere qualche decina di metri al massimo, e questo nonostante le destinazioni fossero la sede di Assolombarda o di Confindustria sotto le quali intonare qualche coro o lasciare una trave in cartapesta, per ricordare la morte di Lorenzo. 

I manifestanti non erano esponenti di estrema destra diretti verso la sede della Cgil per devastarla (con quelli niente manganelli), ma studenti molti dei quali minorenni, lavoratori, appartenenti a sindacati, rider, ragazzi che frequentano centri sociali.

Eppure, non appena hanno accennato l’intenzione di scavalcare il recinto dietro il quale se ne stavano confinati, sono stati picchiati, manganellati, presi per il collo e respinti con una tale ferocia che alcuni si sono fatti male cadendo, altri hanno perso i sensi, altri ancora le scarpe.

C’è chi è stato portato via da un’ambulanza mentre urlava dal dolore, chi - per nulla intimorito- ha riconquistato la prima fila dello schieramento, chi - incredulo - ha cercato di parlare con chi li stava manganellando. «Perché ci state picchiando, potremmo essere i vostri figli!», «Ma cosa state facendo, vi rendete conto?», «Ve la prendete con dei quindicenni?» sono solo alcune delle domande accorate rivolte a poliziotti schermati da caschi, difesi da scudi e pronunciate da giovani inermi, armati di striscioni e altoparlanti.

A freddo o a caldo

«Esiste un limite per manifestare e quel limite è la violenza nei confronti dei poliziotti», ha affermato il portavoce dell’Associazione nazionale funzionari di polizia Girolamo Lacquaniti. Aggiungendo che i poliziotti sono stati colpiti da lanci di oggetti, uova, calci negli stinchi e sfidati per ore, accumulando tensione. Soprattutto a Torino «dove c’erano anche i centri sociali». Lacquaniti sostiene che la narrazione secondo la quale i poliziotti colpirebbero a freddo gli studenti è falsa. Dunque, dobbiamo dedurre che per reazione “a caldo” che giustifichi manganellate su ragazzini e ragazzine si intenda “tu mi lanci un uovo di vernice e io ti spacco la testa”.

Dobbiamo dedurre che 30 poliziotti in tenuta anti-sommossa non reggano la pressione psicologica rappresentata da alcuni studenti- molti dei quali sotto i sedici anni, come nel caso di Roma- che chiedono di poter sfilare in corteo. Studenti che non hanno picchiato, minacciato, lanciato nulla. E dobbiamo dedurre che quel «se lanciate un altro uovo vi carichiamo» a cui è seguita, appunto, una violentissima carica a Milano, non sia un’azione compiuta a freddo.

«È dal 2016 che chiediamo l’abolizione dell’alternanza scuola-lavoro, venerdì non era la prima volta che manifestavamo per questo. A Torino ho visto con i miei occhi poliziotti che puntavano chi picchiare, io sono stata caricata due volte, la seconda avevo già la testa insanguinata e non si sono fermati. Non ho paura, non ci hanno intimiditi e venerdì 4 febbraio torneremo in piazza per ribadire le nostre idee», dice Sara, 17 anni, la cui foto con il sangue che le cola dalla testa è diventata uno dei simboli della repressione sugli studenti.

Pietro, rappresentante del liceo Virgilio, racconta: «A Roma eravamo pochi studenti giovanissimi, disarmati e a volto scoperto. Quando la celere si è schierata abbiamo detto che volevamo fare un corteo, nessuno ha lanciato oggetti o tirato calci. C’è stata al massimo una pressione fisica sugli scudi dei poliziotti, ma nasceva da una frustrazione di noi ragazzi di fronte a un coetaneo morto per una legge che chiediamo da tempo venga abolita e per un corteo di dieci minuti che ci è stato negato per ragioni inspiegabili. Vedendo Torino, Milano, Napoli ho idea che questa violenza sia stata stata un’azione congiunta».

Parlano i ragazzi feriti, parla il portavoce della polizia, parla l’interrogazione parlamentare di Nicola Fratoianni, parla perfino Enrico Letta, e la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese continua a tacere. E certe volte il silenzio è la manganellata più dolorosa di tutte.

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