La sopravvivenza del governo Conte bis potrebbe passare per l’appoggio dei sei senatori a vita. Sei voti vitali in un Senato in cui la maggioranza assoluta è fissata a 161 e l’attuale maggioranza – senza Italia viva ma contando anche la schiera dei nuovi “costruttori” – dovrebbe arrivare al massimo a quota 157.

Di alcuni si conosce già l’orientamento: Liliana Segre ha fatto sapere che arriverà appositamente da Milano per votare la fiducia, così come dovrebbe fare anche Mario Monti. Sarà assente per motivi di salute l’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Per il sì potrebbe esprimersi anche la biologa Elena Cattaneo, senatrice a vita iscritta però al gruppo delle Autonomie, che attualmente sostiene il governo. Incerti, invece, sono l’architetto Renzo Piano e il fisico Paolo Rubbia, che raramente si sono visti a palazzo Madama e che erano assenti anche al voto di fiducia del Conte bis nel 2019. Su di loro, però, si sarebbe attivato il pressing delle forze politiche di maggioranza: con i cinque sì dei senatori a vita di nomina presidenziale scatterebbe la maggioranza assoluta e dunque la vittoria piena dell’attuale governo, allontanando del tutto l’ipotesi del Conte ter.

Ancora una volta, tuttavia, le sorti di un governo sarebbero appese alla coscienza dei componenti non eletti del parlamento, la cui nomina è prerogativa esclusiva e insindacabile del presidente della Repubblica. Come quello di tutti i parlamentari, i senatori a vita non sono soggetti ad alcun vincolo di mandato e, a differenza degli eletti, non rispondono ad alcun partito politico. Questa teorica autonomia, tuttavia, è stata spesso considerata più di facciata che di sostanza: storicamente, i senatori a vita si sono schierati a favore del governo in carica. Secondo il centrodestra poi, essendo tutti stati nominati da presidenti della Repubblica eletti da governi di centrosinistra, i senatori a vita propenderebbero per sostenere governi vicini a quell’area politica.

«Residui fossili»

«Questi cinque non potranno mai in nessun modo spostare il centro di gravità di una situazione politica in Senato», furono le parole in assemblea costituente del democristiano Antonio Alberti, che ne propose l’introduzione scontrandosi con la contrarietà dei comunisti e soprattutto di Umberto Terracini, che li definì «residui fossili del Senato regio». I senatori a vita sono previsti all’articolo 59 della Costituzione, in cui riecheggia l’articolo 33 dello Statuto Albertino, che prevedeva che tutti i membri del Senato venissero nominati dal re.

Secondo la Costituzione, il presidente della Repubblica può nominare senatori a vita «cittadini che hanno illustrato la patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario» e il senso dell’istituto è quello di portare tra gli scranni parlamentari il meglio dell’intellettualità italiana, che in questo modo può offrire un contributo alla legislazione svincolata dalle condizioni politiche contingenti. Si dividono in due categorie: gli ex presidenti della Repubblica, che diventano senatori “di diritto”, e i senatori a vita che vengono nominati in un numero massimo di cinque. Proprio il numero è stato oggetto di due diverse interpretazioni: la prassi maggioritaria è quella della lettura restrittiva, con il numero massimo di cinque senatori a vita in carica, ma Sandro Pertini e Francesco Cossiga preferirono l’interpretazione estensiva e nominarono cinque senatori a vita a testa. Tanto che nel 1992 sedevano a palazzo Madama nove senatori a vita e due ex presidenti della Repubblica.

Da Berlusconi a Prodi

Nel 2007, i cinque senatori a vita di allora – Rita Levi Montalcini, Francesco Cossiga, Carlo Azeglio Ciampi, Emilio Colombo e Oscar Luigi Scalfaro – sfilarono sotto il banco della presidenza del Senato per esprimere il loro voto di fiducia al governo Prodi sulla finanziaria: a ciascun passaggio, vennero coperti dai fischi e dagli insulti dei senatori dell’allora Casa delle libertà. La più bersagliata, in particolare dalla Lega nord, fu la novantasettenne premio Nobel Rita Levi Montalcini, a cui l’allora leader de La Destra, Francesco Storace, fece recapitare delle stampelle, suscitando l’indignazione del senatore Furio Colombo e del capo dello stato Giorgio Napolitano. Lo stesso era accaduto anche nel 2006, quando il governo Prodi si era insediato ottenendo la fiducia al Senato sempre grazie ai senatori a vita. In quel caso era stato l’ex presidente e senatore di diritto Cossiga a replicare agli insulti con una lettera indirizzata a Silvio Berlusconi, in cui ricordava che «nel 1994 il governo Berlusconi ottenne la fiducia per un solo voto, a garantirla tre senatori a vita: Giovanni Agnelli, Francesco Cossiga e Giovanni Leone», concludendo che allora «nessuna accusa di immoralità ci fu rivolta né dalla sinistra né... da te!».

Eppure i senatori a vita sono stati osteggiati sin dalla loro istituzione: tutti gli studi e le commissioni di riforma costituzionale ne hanno proposto l’abolizione, ma nessuna legge lo ha ancora fatto (la legge costituzionale sulla riduzione del numero dei parlamentari ha solo il loro numero massimo in cinque). In tempi recenti, anche Matteo Salvini si è scagliato contro di loro, per la fiducia data al governo Conte bis nel 2019 da quattro di loro, che si erano invece astenuti sul Conte uno. A fare lo stesso, infine, era stato anche Beppe Grillo, che nel 2001 aveva definito Montalcini «vecchia puttana» e nel 2012 scriveva che i senatori a vita «non muoiono mai, o almeno muoiono molto più tardi» e che la loro è «una promozione di carattere feudale, baronale». Per un curioso contrappasso della storia, tuttavia, ora è proprio il governo del suo stesso Movimento ad aver bisogno di loro per proseguire col suo incarico.

 

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