Dopo il discorso programmatico di Mario Draghi sull’Unione europea c’è un punto col quale nessuno sembra voler fare i conti: l’eventuale elezione di Draghi a presidente della Commissione europea sarebbe il segnale di una crisi profondissima della politica continentale.

Vorrebbe dire esportare la soluzione del “governo tecnico” a Bruxelles, il fallimento di ogni opzione politica alternativa, l’incapacità totale di trovare un leader politico spendibile tra 27 paesi.

Per questo gli entusiasmi di molti commentatori italiani vanno raffreddati, l’opzione Draghi non sarebbe un buon segnale per la salute della politica europea ed è improbabile che i maggiori partiti, il Ppe in particolare, rinuncino a mettere una loro personalità a capo della Commissione.

Diverso il discorso per la presidenza del Consiglio europeo, un ruolo che dipende da accordi tra capi di governo, meno decisionale e più di mediazione, in cui una figura super partes ed esperta sarebbe forse più facile da accettare. A ogni modo che la politica europea sia in crisi traspare anche dal fatto che Draghi abbia dovuto fustigare pubblicamente quelli che erano i suoi colleghi di governo, arroccati in una indecisione perenne che ricorda l’attesa di Godot.

Messaggi da oltreoceano

La mossa dell’ex governatore della Bce non è soltanto quella di una personalità incaricata di redigere un report, ma anche di chi si fa portatore di messaggi da oltreoceano essendo Draghi un uomo di sistema, nodo importante della fitta rete tra Washington e Bruxelles.

Gli Stati Uniti chiedono agli alleati europei di spendere di più per la difesa, di reggere un ordine della globalizzazione che oggi ricerca una nuova riterritorializzazione e protezione del capitalismo occidentale. Si tratta di affrontare un sostanziale accorciamento delle catene del valore e il ritorno a un modello protezionista, profondamente diverso da quello degli ultimi trent’anni fondato sull’export e delle lunghe supply chain dell’èra che ci siamo appena lasciati alle spalle.

In questo nuovo modello i paesi Ue dovranno poter contare su una domanda interna più forte rispetto a un’economia basata sulle esportazioni e quindi su maggiori investimenti pubblici e privati.

Draghi traspone tutto questo nel suo discorso europeista, aggiungendoci il completamento della riforma dell’integrazione dell’Ue, come quella del mercato di capitali, come un uso più sostanziale degli aiuti di stato, superamento della disciplina della concorrenza che oggi non è più attuale perché sfavorisce i processi di fusione di aziende per la formazione di campioni europei (in campi come difesa, siderurgia, telecomunicazioni, energia).

Agenda Draghi

Tuttavia, ciò che Draghi propone è parte di una trasformazione dell’Ue che però è incompleta da molto tempo. Si prenda il mercato dei capitali e l’Unione bancaria, mai completati per volontà politica e sfiducia reciproca dei principali paesi europei, oppure alle resistenze sulla emissione di eurobond.

Lo stesso può dirsi della difesa comune dal fallimento della Ced a oggi. Purtroppo su carta tante idee possono essere condivisibili, ma poi è la politica a determinarne la realizzazione. E la politica europea, inclusa quella in cui Draghi ha operato con successo, ha sempre fallito nel fare un passo in avanti.

Ciò perché la strada scelta è sempre stata quella economica-funzionale, una via che prima o poi si esaurisce se non sorretta dalla legittimazione politica. E, piaccia o meno, oggi gran parte della legittimazione politica, in termini democratici, fiscali e simbolici, risiede ancora negli stati nazionali.

Dunque quanto di ciò che viene indicato da Draghi è realizzabile? Un maggior coordinamento sulla difesa è senza dubbio possibile sul piano degli acquisti e della produzione di armamenti dei principali gruppi industriali così come le regole comunitarie, spesso zelanti, sulla concorrenza possono essere cambiate. Mentre altre riforme di stampo più politico – il superamento del potere di veto dei governi nel Consiglio europeo ad esempio – sembrano difficili da realizzare.

Lo stesso vale per gli investimenti green, dal testo di Draghi è evidente che questi non servano tanto a salvare il pianeta quanto piuttosto a rilanciare consumi e domanda interna dell’Ue tuttavia non si possono non considerare le implicazioni socio-politiche che questi determinano con conseguenti resistenze alla transizione ecologica di ampi settori della popolazione.

Dunque Draghi fornisce alla politica impulsi tecnocratici. È il suo ruolo e nessuno si aspetta altro da chi non si è mai impegnato nella lotta politica, ma la democrazia si regge sul consenso e sulla legittimità.

Senza una Costituzione europea che chiarifichi le competenze dell’Ue e dia un corpo politico all’Europa, invero molto difficile da realizzare, gran parte delle riforme proposte rischiano di infrangersi sulle resistenze dei popoli e degli stati. Chi potrebbe lavorare al cambiamento è proprio la classe politica e di governo europea che però è così imbelle da plaudere alla fustigazione pubblica che lo stesso Draghi le impone.

Una scena preoccupante perché Bruxelles così ricorda sempre più Roma: si plaude al tecnocrate, si accolgono con giubilo i suoi suggerimenti, magari si conferisce a questo un ruolo formale e poi, quando c’è da decidere e realizzare, non si è capaci per mancanza di consenso, coraggio o forza politica. Una spirale da cui è difficilissimo uscire.

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