Un passato che non passa, rinvigorito dalle sue lunghe propaggini scaldate dal medioriente infiammato, piomba nella campagna per la Casa Bianca. È l’ossessione dell’11 settembre eterno, l’incubo mai metabolizzato del nemico alle porte o addirittura dentro casa, il dilemma su come combattere il terrorismo tra il garantismo obbligatorio per un democrazia compiuta e la necessità delle maniere spicce contro chi la nega.

L’emergenza e la legge ordinaria entrate in cortocircuito sino a determinare un processo dalle lunghezze “italiane” ancora in attesa del suo giudizio ventitré anni dopo e con una svolta, annunciata poi cassata, che non poteva non influire sulle elezioni di un America scissa tra due fazioni di impossibile conciliazione.

È successo che Susan Escallier, capo del pool di magistrati dell’accusa, aveva raggiunto un accordo di patteggiamento contro tre imputati: una dichiarazione di colpevolezza da pronunciare in un’udienza preliminare in cambio dell’ergastolo invece della pena di morte.

Le motivazioni dei giudici: «La decisione dopo 12 anni di contenzioso, non è stata presa alla leggera. Tuttavia è nostro giudizio collettivo, ragionato e in buona fede, che questa soluzione sia la strada migliore per giungere alla conclusione».

Le proteste

Prima di procedere, una lettera è stata recapitata ai familiari delle 2.976 vittime accertate degli attacchi a New York e Washington perché non si trovassero davanti al fatto compiuto e nella speranza che condividessero l’iniziativa: una giustizia comunque, dopo tanto tempo.

Ma i parenti non hanno gradito, le associazioni in cui si sono riuniti hanno protestato. Diversi deputati repubblicani hanno cavalcato l’indignazione.

Il candidato alla vicepresidenza James David Vance ne ha approfittato per un attacco frontale agli avversari democratici: «Tutto ciò è ridicolo ma non sorprendente. Pensate a che punto siamo arrivati. Il dipartimento di Giustizia di Joe Biden e Kamala Harris è stato armato per perseguire i loro oppositori politici ma stringe accordi con i terroristi dell’11 settembre. Abbiamo bisogno di un presidente che uccida i terroristi non che tratti con loro». (Ma Biden un anno fa aveva bocciato l’idea rifiutandosi di concedere le garanzie presidenziali, è il potere giudiziario che ha deciso di proseguire nel difficile iter).

Passo indietro

Davanti a tanta sollevazione il segretario alla Difesa Lloyd Austin ha revocato il patteggiamento «nell’esercizio della mia autorità». Tanto rumore per nulla insomma. E i tre, nomi eccellenti della galassia jihadista e dei vertici di al-Qaeda, tornano ad essere candidati alla pena di morte.

Come mai fossero in attesa del verdetto dopo essere stati catturati nel 2003 lo si spiega con il buco nero sulla loro sorte prima nella loro ricomparsa nel famigerato carcere di Guantanamo (Barack Obama aveva promesso di chiuderlo) nel 2006.

Anni trascorsi nelle carceri illegali della Cia dove sono stati sottoposti a torture ed è stato dunque gioco facile per i loro difensori impedire che fossero usate come prove in dibattimento confessioni di colpevolezza estorte con metodi illegali.

L’architetto

Nel caso di Khalid Shaikh Mohammed è stato appurato che per ben 183 volte nel solo giro di un mese è stato sottoposto al waterboarding, l’annegamento simulato, sino al limite della morte per asfissia. Mohammed, pakistano, oggi sessantenne, è considerato l’architetto dell’11 settembre. Il suo progetto iniziale, denominato “Bojinka”, aveva degli obiettivi ancora più estesi, prevedeva il dirottamento di aerei sia sulla costa est sia sulla costa ovest degli Stati Uniti.

Lo stesso Osama bin Laden, il fondatore e leader di al-Qaeda, lo aveva ritenuto troppo ambizioso e di difficile attuazione, invitandolo a semplificare l’azione a a ridurne i tempi di attuazione.

Poco più che ventenne era entrato nella galassia jihadista in Afghanistan, dove i combattenti, per paradosso armati dagli americani, si battevano contro l’Unione sovietica. Poi aveva maturato l’odio contro il «grande Satana», soprattutto per la politica di appoggio a Israele nell’eterno conflitto con i correligionari palestinesi.

Numerose sono le azioni in cui è stato coinvolto, la più odiosa delle quali è la decapitazione, a Karachi, del giornalista del Wall Street Journal Daniel Pearl. Ha sostenuto di essere lui l’uomo incappucciato che compare nel raccapricciante video dell’esecuzione: «L’ho decapitato con la mia benedetta mano destra».

Gli ambigui servizi segreti pakistani, alleati alla bisogna con l’occidente o con i terroristi, sostennero di averlo ucciso in uno scontro a fuoco. Gli americani non ci cascarono e lo catturarono a Rawalpindi, non distante dalla capitale Islamabad.

Il cassiere

Se Mohammed è stato l’architetto, il saudita Mustafa Ahmed al Hawsawi, è stato il cassiere e il responsabile della logistica dell’attacco all’America. Fu lui a occuparsi dell’acquisto dei biglietti aerei, del cibo, della prenotazione di camere d’albergo e di autovetture. E a inviare il denaro necessario a Mohammed Atta, il capo del commando suicida, per portare a termine la missione. Cercò riparo in Pakistan dove evidentemente si sentiva più al sicuro rispetto al paese d’origine ma fini nelle mani degli americani.

E infine lo yemenita Walid Muhammad Salih bin Mubarak bin Attash, il più giovane, classe 1978, ma appena ventenne già ben introdotto nell’esercito islamista se partecipò alla preparazione degli attentati alle ambasciate americane nell’Africa orientale e poco dopo a un analogo attacco alla nave USS Cole nel porto di Aden.

Bin Laden lo notò al punto da volerlo tra le sue guardie del corpo. Perse una gamba in uno scontro a fuoco, dovette rinunciare a far parte dei gruppi suicidi e ripiegare nel ruolo di allenatore e selezionatore dei “martiri” prescelti per il più spettacolare e cruento attentato della storia recente. Perfezionò anche la tecnica per salire a bordo con i coltelli evitando i controlli poi usata dai dirottatori degli aerei. Come gli atri due, fu scovato in Pakistan e recluso in una prigione segreta della Cia.

Un lungo stallo

Nel 2008 tutti e tre confessarono. Sembrava finita. Se non fosse per quel dettaglio non da poco delle vessazioni subite nelle prigioni illegali che invalidavano le loro parole e le rendevano inutilizzabili in dibattimento.

Da qui il lunghissimo stallo sino ai giorni nostri con l’evidente impaccio delle autorità che non sapevano come procedere. Fino all’escamotage di una nuova ammissione di colpa, stavolta da pronunciare in un’aula di tribunale, ad anni di distanza dalle torture, in cambio del carcere a vita invece della pena capitale.

Anche per la necessità di evitare un dibattimento durante il quale, ovviamente, si sarebbero dovuti riaccendere i riflettori sui metodi della Cia, sul famigerato carcere di Guantanamo, sulla salvaguardia dei diritti civili per chiunque in un paese democratico.

Considerazioni pratiche che si sono schiantate contro gli interessi della politica nel particolare momento in cui, dopo il 7 ottobre (non per caso definito l’11 settembre di Israele), il riaccendersi dei fronti tra il Golfo e il Mediterraneo è la prova che il fondamentalismo islamista non è stato vinto. E un candidato presidente, anziano ma testosteronico, rilancia l’idea che il solo metodo è quello del pollice verso.

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