Gli imperi forse hanno itinerari già tracciati. Così è successo all’Unione sovietica e agli Stati Uniti. Entrambi invasori sconfitti dell’Afghanistan, dopo dieci anni di guerra i russi, dopo venti gli americani. Gorbaciov dopo la sua elezione aveva deciso presto di lasciare Kabul. Un giorno al Cremlino aveva ricevuto il rappresentante del segretario generale Onu, l’italiano Giandomenico Picco, che partendo da un foglio bianco cercava di approdare alla fine dell’invasione.

Il nodo era decidere chi avrebbe governato il paese in futuro. I comunisti locali, i guerriglieri che avevano sconfitto l’armata rossa, o i nostalgici della monarchia? Gorbaciov disse: «Potete mettere anche l’imperatore, noi ce ne andiamo». La frase decisiva restò sigillata nella stanza, tra pochissimi testimoni.

Quella impresa fallita era iniziata con una menzogna, con l’appello alla radio dell’esule Babrak Karmal ai sovietici per proteggere la indipendenza afghana. Lo stesso Karmal racconterà poi che mentre parlava aveva un kalashnikov puntato alla schiena. Il Cremlino lo aveva riportato a Kabul, messo al governo e dopo qualche tempo lo trasferirà in una dacia superprotetta alla periferia di Mosca. Praticamente agli arresti domiciliari. Questo era il meccanismo del potere sovietico. Pochi anni dopo, nel 1990, Gorbaciov riceverà il Nobel per la pace.

Intanto le parole glasnost e perestroika erano uscite dalle restrizioni dei caratteri cirillici entrando nel linguaggio internazionale. Erano arrivate anche sulla piazza Tienanmen a Pechino, occupata dai giovani cinesi che rincorrevano a modo loro idee come democrazia e riforme. Per loro la statua della libertà ricostruita in polistirolo e trasportata a mano, su un carretto, davanti alla città proibita, vicino al mausoleo di Mao, era un simbolo da esporre e imitare. Ogni giorno la folla cresceva e lì arrivò anche Gorbaciov, in carne e ossa. Era il 15 maggio 1989, l’armata rossa aveva lasciato l’Afghanistan esattamente lo stesso giorno, tre mesi prima.

Quella era una visita di stato, preparata da tempo, doveva ricomporre dopo trent’anni i rapporti tra due imperi confinanti, entrambi ispirati a una ideologia simile, se non identica, governati dal partito unico. C’erano stati anche scontri armati al confine, sul fiume Ussuri. E gli incontri dovevano avvenire dentro il palazzo della Assemblea del popolo, su un lato di piazza Tienanmen, il cuore simbolico della Cina. Un contesto delicato e imbarazzante. E infatti le autorità cinesi restavano in silenzio e in apparenza inerti davanti a quella contestazione spontanea.

Due parole

Gorbaciov doveva solcare quella marea umana per arrivare all’appuntamento con Deng Xiaoping. Il suo nome veniva gridato sempre più forte, assieme a glasnost e perestroika. La folla continuava a crescere. Dal punto di vista ideologico era un contagioso ammutinamento di massa.

Alla fine, ricorrendo ancora una volta alla risorsa cinese della “porta di dietro”, la macchina blindata di Gorbaciov verrà dirottata su una stretta striscia di asfalto utilizzata per sistemare i bidoni della immondizia e l’ospite ingombrante e acclamato entrerà alla Assemblea del popolo dalla porta di servizio.

Dopo la sua partenza il segretario del partito Zhao di notte va a parlare con gli studenti e rifiuta di firmare la legge marziale. Vivrà da allora agli arresti domiciliari. Due anni dopo i golpisti di Mosca annunciano: Tienanmen non deve ripetersi qui. Si interrompe dove era iniziata la visione liberale, contagiosa di Gorbaciov e di due parole.

 

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