Una settimana fa, il premier giapponese Fumio Kishida, in visita ufficiale a Washington, è stato ricevuto alla Casa Bianca e ha discusso con Joe Biden di come contenere le ambizioni cinesi nell’area dell’Indo-Pacifico. Sull’intero meeting aleggiava tuttavia un fantasma. Per essere precisi: un fantasma di acciaio.

Il fantasma è apparso ai primi di marzo quando, con una mossa a sorpresa, Joe Biden ha deciso di intervenire nella turbolenta acquisizione, un accordo da quasi 15 miliardi di dollari, dell’acciaieria americana Us Steel da parte della giapponese Nippon Steel.

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In quell’occasione Biden definì Us Steel «un’azienda iconica dell’acciaio americano», che era «vitale» rimanesse «gestita e in mano americana». Si schierò così implicitamente con la United Steelworkers, il sindacato degli acciaierie che, per questioni di contratti e garanzie d’investimenti, da mesi combatte contro l’accordo e a favore di una cordata alternativa, guidata da un altro gigante dell’acciaio americano, la Cleveland Cliffs. Una terza cordata porta alla ArcelorMittal, nota dalle nostri parti per le disavventure dell’impianto di Taranto.

L’acquisizione da parte di Cleveland Cliffs tuttavia rischiava di suscitare le spiacevoli attenzioni dell’Antitrust americano e così, a dicembre 2023, i dirigenti di Us Steel hanno preferito accordare precedenza alla pista giapponese. Tutto sembrava andare liscio finché Biden non ha deciso, in modo quantomeno inconsueto, di interessarsi alla questione.

Non è infatti molto comune che il presidente degli Stati Uniti si occupi della compravendita di singole aziende o sposi vertenze sindacali, a meno che non ci siano in gioco (come già accaduto nell’ambito dei microchip, dell’energia e delle armi) questioni di sicurezza nazionale. Ma non è questo il caso.

Us Steel ha bisogno di nuova linfa per investimenti in innovazione, i dirigenti di Nippon Steel hanno assicurato la continuità degli stabilimenti e dei lavori che essi assicurano, e, soprattutto, il Giappone è uno dei più storici e consolidati alleati degli Stati Uniti, il primo partner del paese in Asia.

Swing State

Ma allora cosa è andato storto? È andato storto che siamo in anno di elezioni e gli stabilimenti della US Steel si trovano in Pennsylvania ovvero uno dei cosiddetti “swing State”, gli stati “indecisi” che, per poche migliaia di voti, possono passare da un partito all’altro e decidere, a causa del funzionamento del sistema elettorale americano, l’esito di un’intera elezione.

Non solo: la Pennsylvania è lo stato di nascita di Biden ed è una regione che sull’acciaio ha costruito la propria storia e le proprie fortune. E dunque, oltre alle preoccupazioni concrete per il futuro e la liquidità di Us Steel, l’idea che un patrimonio che non è solo economico ma anche un fatto d’identità e di cultura locale, finisca in mani straniere risulta per la gente del posto difficile da accettare.

Ogni voto conta

Nel 2020 la Pennsylvania votò Biden, che prevalse con un risicatissimo 50,1 per cento e fu una vittoria decisiva per l’esito delle presidenziali, ma quattro anni prima la spuntò Trump e anche nel 2024 si prevede che la lotta sarà punto a punto.

Per questo nessuno dei due candidati può permettersi passi falsi in Pennsylvania. E così, dopo che, a inizio febbraio, Trump ha assicurato che se fosse alla Casa Bianca bloccherebbe l’acquisizione, anche Biden ha dovuto prendere posizione, ottenendo subito un risultato concreto, almeno dal punto di vista elettorale. La United Steelworkers ha infatti annunciato il proprio pubblico endorsement alla sua campagna elettorale.

Vie d’uscita

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Dopo l’intervento presidenziale, la questione è ora finita sul tavolo del Committee on Foreign Investment, un’agenzia governativa incaricata, se sollecitata dalle alte sfere, di vagliare l’opportunità politica di questo genere di operazioni.

Di solito però le acquisizioni che finiscono sotto la lente d’ingrandimento presentano risvolti che riguardano la sicurezza nazionale o coinvolgono nazioni che gli Stati Uniti considerano rivali o addirittura nemiche. È molto più raro che il Committe si muova nei confronti di alleati strategicamente fondamentali come il Giappone, che oltretutto è il primo paese al mondo per investimenti diretti negli Usa.
Biden si trova dunque in una situazione particolarmente difficile. Da una parte c’è l’amicizia con il Giappone, che non può essere messa in pericolo, soprattutto ora che la rivalità con la Cina è sempre più manifesta. Dall’altra ci sono le necessità della campagna elettorale.
Per uscirne “pulito” il presidente ha due sole speranze. La prima è che il suddetto Committe si esprima a sfavore dell’accordo. Questo parere non sarebbe vincolante ma allungherebbe i tempi della questione al punto da rimandarne forse l’esito a dopo le elezioni.

L’altra è che i dirigenti della Nippon Steel convincano i sindacati delle loro buone intenzioni, e facciano così rientrare le vertenza prima delle elezioni. Secondo i giornali americani, entrambi gli scenari appaiano tuttavia al momento poco probabili.
C’è quindi una terza, e più realistica, possibilità. E cioé che Biden abbia spiegato al primo ministro giapponese che sebbene un eventuale blocco dell’accordo non sia l’ideale per le relazioni tra i loro due paesi, lo sarebbe ancora meno il ritorno di Donald Trump allo studio ovale.

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